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“E QUINCI IL MAR DA LUNGI E QUINDI IL MONTE”

ottobre 25, 2010

Dialogo tra Alessandro Moscè e Umberto Piersanti

Moscè: Ho l’impressione che la poesia da salvaguardare sia sempre di più quella che coglie il reale nella sua concretezza, che dia risposte o che offra interrogazioni sui temi assoluti dell’esistenza umana. Non per esprimere un giudizio di valore e una presa di posizione inflessibili, ma per ritornare a quella “poesia onesta”, per dirla con Saba, che esprima un’“ansia di senso”. Eppure oggi i contrasti ideologici, le dispute e le frizioni, le scuole di pensiero abbondano e continuano a creare più dissipazione che altro.

Piersanti: Viviamo una fase dove ci siamo liberati delle ossessioni del passato, della dittatura delle avanguardie. La poesia, oggi, ha molti indirizzi di ricerca, molte possibilità. Nonostante questo trionfano in modo quasi assoluto due soli indirizzi di ricerca. Da un lato uno sperimentalismo totalizzante, dall’altro una poesia prosaica e quotidiana, anti-lirica, di derivazione lombarda. Viene accolta anche una terza linea che sviluppa una tendenza mitopoietica (Conte, De Angelis, Mussapi). Chiariamo subito che viviamo in un’epoca in cui nessuno ha il bastone del comando in mano, anche se è rimasta viva una certa polemica contro la dimensione lirica, che pure ha avuto una grande tradizione. Non si tratta di avallare la ripetizione pedissequa di una scrittura ottocentesca, ma i sentimenti, le emozioni e le vicende sono elementi da difendere, nella poesia, anche contro il rischio di un esasperato lirismo o liricismo. Certo, la nozione di canto non può avere regole fisse, ma un tremore d’aria rimane un tremore d’aria, e può essere cantato con un ritmo franto. Aveva ragione Giorgio Caproni: la poesia non è musicale, è musica. Rimangono ancora alcuni pregiudizi di fondo, alcune parole che la critica italiana ha messo al bando e che voglio sfatare: idillio, nostalgia, elegia, che sono vere e proprie categorie, archetipi dello scrivere. Facciamo un esempio: l’elegia può significare il ritorno in un luogo dove si è stati bene nell’infanzia. Se torno da solo e quel luogo l’ho attraversato al fianco di una persona amata durante l’infanzia, la nostalgia e la tenerezza prendono il sopravvento. Non perché l’infanzia di ieri sia migliore di quella di oggi, ma perché quella che ricordo è stata la mia infanzia.

Moscè: “Pelagos” si è imposto all’attenzione di un certo pubblico come rivista cartacea. Ora si trasforma in una rivista online. Ci sono dei punti fermi, dei presupposti che hanno contraddistinto per anni questo periodico. E sono convinzioni che ritornano, considerate imprescindibili anche adesso. Spieghiamo in quale poesia si crede, pur senza chiudersi a riccio.

Piersanti: Una poesia con più strade e non solo circoscritta nel sociale. Impegno e rivoluzione linguistica spesso si sono sposate, e di questi tempi tutto è ridotto a consumo, lo scambio ha soppiantato l’uso. Lukács riconobbe ben poco a Hörldelin rispetto ai romanzieri, ritenendo la poesia eccessivamente individualista e decadente. Secondo Lukács il soggetto in grado di afferrare e penetrare quella totalità che costituisce il reale, era la classe sociale. L’arte doveva spiegare il tipico, i personaggi devono essere ben determinati e non solo rappresentare un determinato ceto e una determinata classe, ma anche in un qualche modo incarnare e prefigurare i mutamenti della storia. Julien Sorel, ad esempio, non è solo il rappresentante di una piccola borghesia che il mondo napoleonico aveva portato alla ribalta, ma incarna gli aspetti di un borghese futuro e diverso che solo gli anni seguenti avrebbero pienamente rivelato. Il tutto senza perdere le caratteristiche specifiche di un personaggio concreto e determinato che non viene mai ridotto ad una mera esemplarità sociale. Il marxismo non amava la poesia perché la poesia è al di sopra della storia, attraversa la storia con gli archetipi, appunto. Se Saffo vedeva l’amica andare a nozze tremava e balbettava: se qualcuno oggi vedesse la sua fidanzata amoreggiare con un altro, proverebbe più o meno le stesse sensazioni della poetessa greca. L’amore, la paura della morte, la perdita della giovinezza hanno una consistenza antropologica, non storica. Stiamo parlando di un’individualità universale. Quello di Paolo e Francesca è un dramma che potrebbe essere vissuto anche ai nostri giorni.

Moscè: Ti offro uno spunto di riflessione dal quale vorrei una disamina da sociologo della letteratura. La poesia non è un prodotto di mercato, sembrerebbe di poter dire neppure provocatoriamente. Qualcuno considera questa marginalità come un punto di forza. Non sono d’accordo. Comprendere e valutare la poesia, appassionarsi ad essa vuol dire anche, soprattutto leggerla. C’è da recuperare un potenziale pubblico della poesia, diventato una razza in estinzione. Emily Dickinson scrisse che “non esiste un vascello veloce come un libro di poesia per portarci in terre lontane”. Come crederci ancora, nel 2010?

Piersanti: Il dramma editoriale della poesia è che oggi due milioni e mezzo di persone hanno pubblicato testi almeno in un foglio parrocchiale, ma la lettura è pressoché inconsistente. Se va bene un libro di poesia vende 1.500 copie, non di più. Non sono per le masse populiste, ma penso che un pubblico da archeologia assira sia un male. Come penso che le poesie contro Berlusconi siano più un manifesto di propaganda che altro. E lo dice uno tutt’altro che berlusconiano. C’è senz’altro l’esigenza di allargare il pubblico. Credere in una poesia legata alla vita, alla forma senza cedere ai formalismi, essere attenti ad un presente che non sia cronaca, magari anche alla poesia civile intesa però in senso alto. Ossi di seppia di Eugenio Montale aveva un unico personaggio, Esterina, ed era per lo più un libro di eucalipti, agavi e formiche rosse. Eppure si sentono moltissimo gli anni Venti. Sosteneva Michael Hamburger che una poesia può parlare anche delle striature di un tulipano, ma se è vera poesia parlerà del mondo.

Moscè: Nella rivista non ci occuperemo solo di poesia, però. Affronteremo anche il mondo della narrativa, che appare sempre più in declino. Non da un punto di vista della ricezione del pubblico, evidentemente, ma della qualità. La narrativa italiana assomiglia alla fiction televisiva e cinematografica. Sembra che ne sia diventata addirittura la copia. Fino agli anni Ottanta succedeva esattamente l’inverso.

Piersanti: Alcuni giorni fa Alain Elkann ha fatto una giusta constatazione. Negli anni Sessanta nelle classifiche dei libri c’erano Calvino, Moravia, la Morante. Oggi Melissa P, la Littizzetto o scrittori di scarso valore come Moccia, che sono molto diffusi. Gualtiero De Santi sostiene che se arrivasse Proust alla Mondadori o alla Rizzoli, gli risponderebbero: “dov’è il plot nella sua scrittura?” Il giallo è diventato imperante e il genere comanda. Giallo, ma anche fantasy e horror. Si segue una moda, nient’altro. Come vanno di moda maghi e veggenti, e siamo tornati ai tempi precedenti la Rivoluzione Francese. Oggi tutto può passare in un casa editrice, ma si tratta di ristabilire una scala di valori in un contenitore che non seleziona più nulla. La narrativa non può non raccontare un mondo e non avere un’ambientazione. Ci si deve affidare alla percezione, del tutto persa da parte degli editori, di un lavoro e di una conoscenza di fondo.

Moscè: Quale potrebbe essere uno slogan di “Pelagos”, detto in poche righe? Quale percorso seguirà, tra testi inediti, interventi, interviste e recensioni pubblicati on line?

Piersanti: I testi, le recensioni e gli interventi dovranno avere uno specifico valore senza ricorrere a chiusure aprioristiche. Ci opporremo alla dittatura mass mediatica sapendo che i mass media non vanno demonizzati e neppure subiti.

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