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MALAPARTE

ottobre 21, 2010

di Giordano Bruno Guerri

 

Malaparte era un vero e proprio personaggio: non passava giorno senza che, per questo o quel motivo, giornali e riviste non si occupassero di lui, con tanto di fotografia.

(Da notarsi che non esiste una sola fotografia di Malaparte dove sia stato colto di sorpresa: è sempre lì, composto e fotogenico, l’occhio attento all’obiettivo anche senza guardarlo.) Insomma: era celebre come un divo del cinema, un calciatore, un uomo politico importante, viveva anche al di là e al di fuori delle sue opere, dei suoi articoli. Si trattava di una delle sue mete principali e la raggiunse: tranne d’Annunzio, nessun altro scrittore italiano ci era riuscito, e nessun altro ce l’ha fatta dopo.

Poi, dopo la sua morte, il silenzio. Scomparso l’uomo, e con lui il personaggio, venne steso il silenzio anche sulla sua opera. Troppo eclatante il suo successo, o troppo ambigua la sua biografia? Per ora, basti osservare quanto sia stravagante e provinciale che – per rilanciarne l’immagine e l’opera – occorra l’uscita, dopo Kaputt, di La pelle nelle edizioni Adelphi. Edizioni prestigiose, certo, e con un ottimo apparato critico, ma non più del Meridiano Malaparte, che ebbe un tam tam mediatico enormemente inferiore. E’ che Adelphi fa figo (“fico”, direbbe lo scrittore toscano), e a quel nome l’intellighentzia italiana si apre appunto come un fico maturo.

Curioso, visto che addirittura Alberto Asor Rosa nella sua storia della letteratura italiana, gli dedica appena poche righe, per di più confondendolo con Curzio Maltese (si tratterà di un refuso, speriamo). Eppure, Kaputt e La pelle sono tra i libri italiani più tradotti e letti, ancora oggi, nel mondo. E Malaparte, all’estero, è più amato che da noi. Nel prossimo febbraio l’editore Grasset pubblicherà un saggio di ben 630 pagine su di lui: direttamente in francese, anche se l’autore del saggio è italianissimo: Maurizio Serra, autorevole studioso della cultura fra le due guerre oltre che ambasciatore. Alla presentazione/convegno presso l’Istituto Italiano di Cultura (23-24 febbraio) parteciperanno, fra gli altri, Bernard-Henri Lévy, Jean-Paul Enthoven e Dominique Fernadez, oltre a Francesco Perfetti e al sottoscritto.

I libri lavorano lentamente. La soddisfazione maggiore che ebbi dal mio su Malaparte – L’Arcitaliano, 1981, ancora vivo e vegeto – fu il “Prix pour le meilleur livre étranger” che gli editori francesi assegnarono nel 1983 all’edizione di Denoël. Deludente fu invece la conferma di malcostumi tipici della cultura italiana: molti recensori parlarono bene del libro ma ripetendo su Malaparte quasi tutti i luoghi comuni che il mio saggio smontava. Però L’Arcitaliano ha trovato, anno dopo anno, lettori attenti e persino disposti – rarissima avis – a riesaminare le proprie idee: parecchie iniziative editoriali, numerosissime tesi di laurea e qualche studioso hanno scoperto un Malaparte diverso da quello che la vulgata degli anni Trenta, Quaranta, Cinquanta aveva tramandato bollandolo pigramente secondo stereotipi fascisti, comunisti e piccolo-borghesi.

Il motivo dell’antipatia che il personaggio suscita (oltre al suo successo) è quel suo stare dentro e fuori il fascismo, dentro e fuori il comunismo, tanto che gli venne appioppata la nomea di “voltagabbana”, difficile da cancellare. Cominciai a occuparmi di Malaparte proprio per esplorare questo mistero. Mi chiedevo se è corretto dare giudizi moralistici su un intellettuale che ha vissuto secondo i propri umori e ha difeso, anzitutto, la possibilità di scrivere in barba a ideologie fanatiche. Il suo pencolare tra fascismo, comunismo, democrazia fu solo molto più rapido, vistoso (e fruttuoso) della media italiana, e non del tutto deprecabile, visti gli esiti delle prime due ideologie e gli esiti molto dubbi della democrazia, quanto a reale “potere del popolo”. La demonizzazione del fascismo è quasi cessata, come la santificazione del comunismo, e ci dovrebbe apparire meno strumentale, più sincero, quello stare dentro e fuori dal fascismo e dal comunismo che in Malaparte, come in tanti italiani, non era solo ipocrisia e debolezza, ma anche genuina speranza di partecipare a una trasformazione radicale e benigna del Paese.

Malaparte precorse molti fenomeni politici, culturali e sociali. Con il suo essere “narratore d’intervento” e “letterato di massa”, diffondendo una sorta di didattica sociopolitica oggi molto più comune di allora e spesso di enorme acutezza; per esempio intuì e scrisse, con decenni di anticipo rispetto agli storici, che la rotta di Caporetto era stata, in realtà, una inconscia rivolta dei soldati italiani di fronte alla condotta militare e politica della prima guerra mondiale; poi, nel secondo dopoguerra, denunciò subito e lucidamente il degenerare dell’antifascismo in una fede religiosa uguale e contraria al fascismo.

Lo spaziare in attività non propriamente sue – dal cinema al teatro, dal giornalismo al varietà – il suo volere a ogni costo essere un personaggio sono fenomeni oggi comuni, quasi banali. Il Malaparte “presenzialista” che curava come una signora la propria bellezza, viveva da single e passava da una donna all’altra, non susciterebbe più scandalo.

Insomma, fu un campione di quello speciale tipo umano che sono gli italiani, in particolare gli intellettuali italiani. Come uomo e scrittore, ha avuto un ruolo non secondario nella nostra società, e ne è più rappresentativo di quanto la società italiana, e lui stesso, gradirebbero: un esemplare gigante dell’italiano medio, come deformato dalla lente di ingrandimento, pletorico e ipertrofico di quei vizi e di quelle virtù che si sogliono definire “nazionali”, un arcitaliano. Era opportunista, mancava di senso dello Stato, applicava costantemente quella doppia morale che ci è ben nota. Era furbo, come deve necessariamente essere un italiano, soprattutto se di successo, ma con quella coscienza, un po’ vergognosa, di esserlo e quell’ingenuità di fondo che rende sopportabili i furbi italiani, specialmente se di successo.

Una cruda verità Malaparte la disse in un’intervista del luglio 1955: “Penso che se fossi vissuto in una società più virile e in mezzo a un popolo più virile sarei forse potuto diventare un uomo nel vero significato della parola. Ma se dovessi definirmi con una sola parola direi che, nonostante tutto, sono un uomo.” Né la prima né la seconda dichiarazione gli sono mai state perdonate, perché vere.

In definitiva, sono i suoi libri a esprimerlo veramente, a rappresentarlo nel mondo, quello dei suoi contemporanei e quello dei posteri. E Malaparte ci ha lasciato, tra gli altri, libri come Kaputt e La pelle. Il motivo centrale della Pelle è lo stesso di Kaputt e dell’incompiuto e postumo Mamma marcia: la decadenza dell’Europa. La “mamma marcia” è infatti l’Europa, umiliata nella sua potenza e schiacciata nella sua cultura dai due vincitori.

A giudicare quanto fosse limitata la critica dell’epoca, basti il giudizio sentimentalmoralistico di uno dei critici più celebri dell’epoca, Emilio Cecchi: Malaparte, “Con animo egoistico e torbido, egli s’è servito di cose che non si potevano né dovevano toccare. Non solo ha odiosamente deriso, ma ha scoperto con mani profane qualche cosa ben più sconcia e lacrimevole della nudità e ubbriachezza di Noè. Diciamo pure, senza neanche bisogno di alzar la voce, che ha fatto, Dio lo perdoni, una di quelle cose che veramente non si fanno.” Ci voleva Adelphi – forse e speriamo – perché il giudizio cambi del tutto.

Briganti, patrioti e illusi: prove di guerra civile

ottobre 15, 2010

di Giordano Bruno Guerri

Ciò che accadde nel 1861 realizzava il sogno secolare di poeti, politici e intellettuali. L’Italia «una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue e di cor», invocata da Alessandro Manzoni, non era più un’astrazione. Ma i che modi e con che spirito fu compiuta l’impresa? Quali tragedie e ingiustizie la accompagnarono?
Realizzata dalla classe dirigente piemontese grazie soprattutto all’abilità diplomatica di Cavour e al temperamento incendiario di Garibaldi, l’Unità integrava davvero identità, culture, tradizioni, persino lingue diverse? Oppure si raggiungeva soltanto l’unità politica? «Si è fatta l’Italia, ma non si fanno gli Italiani», recitava la celebre sentenza di Massimo d’Azeglio, con retorica sufficiente a velare un’intenzione che non c’era – almeno non in tutta la classe dirigente – e non ci sarebbe stata. Lo stesso d’Azeglio scrisse, in una lettera privata: «La fusione coi Napoletani mi fa paura; è come mettersi a letto con un vaiuoloso».
Una parte del nuovo Stato era già «italiana», l’altra non lo era affatto. Occorreva dunque educarla a essere diversa da sé, a costo di snaturarla. Ai primi segni di insofferenza del Sud, nacque subito una contrapposizione rancorosa: «noi» contro «loro». «Noi», i civilizzatori; «loro», i brutali indigeni. «Noi», i portatori di giustizia e legalità; «loro», i briganti. A dividere gli uni e gli altri, c’era una diversità radicale e radicata, non un’inconciliabilità momentanea. Qualcosa di molto simile a un’estraneità, che si finì per aggravare. La storia – a partire dalla Rivoluzione francese – aveva insegnato che, appena si annunciano grandi cambiamenti, dal cuore antico di masse amorfe e analfabete prorompe l’animus di un’opposizione sanguinaria. Per sminuirne la portata, tale opposizione veniva svilita – dagli intellettuali, dai politici e dall’opinione pubblica – a una viscerale manifestazione di rancori e pulsioni irrazionali. Si trattava, invece, di una resistenza ideologica e politica, oltre che sociale. Ma, per liquidarla, i maestri della Rivoluzione francese avevano già capito che il segreto stava nell’accomunare la rivolta al delitto comune. Anche in Italia la ribellione – di reazionari, contadini e clericali – contro lo Stato appena costituito fu etichettata «brigantaggio». Al Sud c’erano banditi veri, criminali comuni, prima, durante e dopo l’Unità. A questi delinquenti vennero equiparati i «briganti», come vennero chiamati i meridionali in lotta per scacciare gli «stranieri» che sbandieravano una fratellanza forzata; dall’altra parte non c’erano parenti, affini, connazionali, bensì un popolo nemico, un invasore brutale e arrogante, venuto da lontano. Nessuna solidarietà, nessuna vicinanza, né culturale, né umana, né politica: i briganti non si sentivano «italiani». I nemici erano usurpatori, colonizzatori arrivati per conquistarli e per cancellare la loro storia, i costumi, i legami e le appartenenze. Due mondi erano in conflitto tra loro. Perché l’uno venisse a patti con l’altro occorreva che il vincitore riconoscesse le differenze e cercasse di cancellarle realizzando una maggiore giustizia sociale. Si preferì l’azione repressiva, determinata a stroncare, soffocare, estirpare. Una logica che alimentò se stessa: la violenza ne generò altra, sempre più crudele. Ufficiali e soldati italiani si sentirono avamposti in pericolo, esploratori in una terra popolata da una razza diversa, percepita come inferiore .
Con la legge Pica, dell’agosto 1863, il governo italiano – in pieno accordo con il Parlamento – impose lo stato d’assedio, annullò le garanzie costituzionali, trasferì il potere ai tribunali militari, adottò la norma della fucilazione e dei lavori forzati, organizzò squadre di volontari che agivano senza controllo, chiuse gli occhi su arbitrii, abusi, crimini, massacri. Mentre accadeva tutto questo, c’era chi vedeva dietro il brigantaggio l’intervento del Papa, chi la longa manus borbonica, e in parte avevano ragione. Ma ne aveva di più chi suggeriva, inascoltato, che la causa principale andasse ricercata nelle oggettive condizioni di minorità sociale e di miseria della plebe meridionale. La verità su cui al Nord tutti concordavano è che, appena nata, l’Italia era già madre di due figli diversi: uno di cui andare fieri, l’altro bisognoso di severe lezioni.

Per gli uomini dei Savoia, i briganti erano l’emblema di quel figliastro malato e depresso, geneticamente tarato. Ma non basta l’approccio razzistico a spiegare l’atteggiamento tenuto nei suoi confronti, c’è dell’altro: potremmo chiamarla la sindrome del «chi ce l’ha fatto fare?». Si spiegano così prima la spietatezza della repressione, poi l’adozione di una politica economica e sociale del tutto inadeguata ai problemi del Mezzogiorno; più tardi la perseveranza con cui quei problemi vennero liquidati come sintomi indelebili di arretratezza e di parassitismo. Il brigantaggio rappresentava il segnale d’allarme di un guasto grave, e non solo per l’ordine pubblico. Il modo in cui fu combattuto sviluppò quella che sarebbe diventata la «delinquenza organizzata», e accrebbe a dismisura la gravità di una questione meridionale destinata a incancrenire la vita politica del Paese perpetuando la contrapposizione Nord-Sud. I contadini saliti sui monti furono – con le sole armi che avevano a disposizione, la disobbedienza e il banditismo – i ribelli di una storia che li aveva ignorati, di un processo che aveva sancito la rimozione della loro cultura e della loro tradizione. Furono la spina nel fianco del potere, almeno per cinque lunghissimi anni. Saranno sconfitti, ma grazie alla loro rivolta, si rafforzò la sensazione che la terra abitata da quel popolo sarebbe stata la «palla al piede» della nazione. «Ci avete voluti, imponendoci la vostra volontà: ora pagate le conseguenze». Ecco cosa sembrava dire il Sud al conquistatore. Tutto ciò rivela gli errori e le colpe di una classe dirigente a cui dobbiamo riconoscere i meriti storici di avere realizzato un processo unitario non più rinviabile. Allo stesso tempo, i padri della patria devono essere giudicati anche sui piedistalli dove, intangibili, li ha collocati la retorica di un Risorgimento popolato solo da piccole vedette lombarde, tamburini sardi e giganti del patriottismo. È una retorica che vuole il nostro Risorgimento fatto solo di eroi, di martiri, di Bene opposto al Male. È una storia alla quale tuttora manca una profonda opera di revisione storiografica .
Perciò il brigantaggio postunitario è stato, lungo il secolo e mezzo di storia nazionale, poco più di una parentesi della quale si sono perse le tracce, quasi un incubo da rimuovere e censurare, una pagina vuota, una tragedia senza narrazione. I briganti scontano, oltre alla sconfitta, anche il destino della damnatio memoriae. A loro, non spetta l’onore delle armi. Gli sconfitti sono scomparsi nella zona d’ombra in cui li ha relegati la cattiva coscienza dei padri della patria. Una guerra in-civile come quella andava dimenticata, rimossa o almeno ridimensionata alla stregua di una semplice, per quanto sanguinaria, operazione di polizia. C’è solo da sperare che, con le prossime celebrazioni dei 150 anni di Unità nazionale, si rinunci almeno in parte al conformismo retorico e patriottardo: aggettivo molto diverso da «patriottico».

Introduzione del libro di Giordano Bruno Guerri Il sangue del Sud. Antistoria del Risorgimento e del brigantaggio 1860-70 (Mondadori, pagg. 302, euro 20).

Un saggio anti-retorico che diventa un’occasione – in questo 150º anniversario dell’Unità d’Italia – per sfatare molti luoghi comuni che orientano il nostro giudizio sul Risorgimento.

LA RADIO FUORI DELLA RADIO

ottobre 6, 2010

D’ANNUNZIO SEGRETO di Luigi Mascheroni

ottobre 3, 2010

Se meritò come soprannome di «Vate», cioè profeta, è perché aveva il dono di precedere gli altri, nel pensiero, nel vivere, nel gusto. Abituato a non curarsi di ciò che gli si parava di fronte, lasciò un segno sugli eventi che accaddero dietro di lui. In letteratura, in politica, nello stile.
Orbo di un occhio ma Veggente, Decadente eppure modernissimo, Superuomo e casalingo, notturno e appartato, in realtà divo e vip ante litteram, Gabriele D’Annunzio si rivela sempre l’opposto dell’uomo di cui ci si ricorda o che gli storici si preoccupano di ricordaci. Entri al Vittoriale degli Italiani, la cittadella che tra gli anni Venti e Trenta del Novecento si fece costruire sul lago di Garda, e ti aspetti il mausoleo del poeta-soldato o l’alcova del dandy-esteta. Ma poi ti imbatti nel «D’Annunzio segreto», che è il nome del nuovo museo aperto nel Vittoriale da Giordano Bruno Guerri, storico e biografo dannunziano, da due anni attivissimo presidente della Fondazione che gestisce il complesso monumentale di Gardone Riviera.
Collocato sotto l’Anfiteatro, all’interno di uno spazio un tempo adibito a magazzino, il museo viene inaugurato oggi dopo mesi di ricerche, ristrutturazioni, progetti. E un’idea: aprire le centinaia di cassetti e armadi rimasti intatti dopo la morte dello scrittore, per mostrarne per la prima volta al pubblico, e d’ora in poi in maniera permanete, l’incredibile contenuto. Oggetti fino a oggi invisibili che tornano a raccontare la vita intima del loro Signore e Padrone.
Eccoci qui, allora, a visitarlo in anteprima, mentre l’architetto Angelo Bucarelli sta ultimando l’allestimento. All’entrata sei monitor su cui scorrono filmati di repertorio provenienti dall’Istituto Luce e dall’archivio Rai, e poi avanti, come urlò una volta, «verso la vita». Che nel caso di D’Annunzio, come in pochi altri, coincide con l’arte. Nelle imprese, nelle opere, negli oggetti d’uso comune. Ecco perché è lui il vero padre del gusto e dello stile italiano.
Appena dentro, in una grande teca è racchiuso il lato femmineo di D’Annunzio: tutti gli oggetti e i capi di abbigliamento che sceglieva per le sue amanti, le «badesse di passaggio» obbligate, quando entravano al Vittoriale, a spogliarsi dei propri abiti e a indossare quelli che il «Priore» D’Annunzio aveva preparato per loro: vestaglie trasparenti, scialli, accappatoi, sandali dorati, profumi, ciprie, pettini, spazzole, specchi, portagioie e forbici d’argento.
Poi un’enorme vetrina a parete con il guardaroba del Vate, o perlomeno la parte fino a oggi segreta: abbiamo contato 40 paia di scarpe, tutte artigianali, da camera, da sera, da giorno, da cerimonia, da notte (un modello, fatto a mano, con un piccolo fallo rosa sulla linguetta e sotto, a rafforzare il concetto, un pesce), bianche, nere, in cuoio, di pelle, coi lacci, con le ghette, basse, alla caviglia, a scarponcino, e poi una dozzina di stivali, e poi ancora bastoni, guanti, foulard, fazzoletti, calzascarpe, tube, bombette, cappelli e cappelliere, bretelle, babbucce orientali, vestaglie, giacche da notte, camicioni.
Uno larghissimo, bianco, che indossava in tarda età, quando aveva vergogna a mostrare il proprio corpo, lungo fino ai piedi ma con un’apertura sul davanti, per potere usare in ogni momento la sua «catapulta inarrestabile». E poi decine di manichini con abiti, frac, cappotti, tutti ideati e firmati da D’Annunzio. Il quale, negli ultimi anni di vita, cosa poco nota, iniziò a disegnare e produrre abiti sartoriali. Ideò, ed è qui in mostra, persino un’etichetta: «Gabriel Nuntius Fecit». Più che un esteta, uno stilista.
Come disse una volta a Giancarlo Maroni, l’architetto del Vittoriale: «Sono miglior arredatore che poeta». E infatti le pareti e le colonne che dividono gli spazi del museo sono ricoperte con le tappezzerie e i tessuti disegnati da lui stesso per la villa, la «Prioria», oppure, come un racconto nel racconto, con le riproduzioni degli autografi del poeta. C’è una colonna con gli «Appunti di ginnastica da camera» con gli esempi dei vari esercizi schizzati dallo stesso D’Annunzio e una colonna con tutti i bigliettini che Ariel o Gabriel, a seconda dello pseudonimo, lasciava alla sua amata cuoca, Albina, che chiamava Suor Intingola e alla quale, magari, lasciava 300 lire di mancia, equivalenti allo stipendio di un mese, per una buona frittata. Una delle poche cose di cui il poeta, frugale e astemio, era goloso. Lettere come questa: «Mia cara Albina, l’accordo di queste tre cose fritte è sublime. Avevo sognato questo piatto stamani. Ma la tua arte misteriosa va al di là del sogno», datato 26 settembre 1930. Oppure: «Per me non c’è al mondo nessun sapore più squisito della pernice fredda. Ho mangiato tutto ed ho leccato gli ossetti col rammarico che anche una pernice fredda abbia una fine».
In un angolo ci sono i bauli da viaggio, con gli scompartimenti per le scarpe, gli stivali, le camicie… In una teca c’è il necessario per la toilette: rasoi d’argento, asciugamani cifrati, pennelli da barba, spazzolini, flaconi di profumo, acqua di colonia delle marche preferite: Florodor o Chantilly, fatte arrivare da Parigi. Ci sono i gioielli – che Giordano Bruno Guerri è andato in mattinata, scortato, a prelevare nel caveau di una banca di Gardone, dove erano custoditi da decenni – tra i quali collane da donna, gemelli dipinti a mano, medaglie, l’anello d’oro che D’Annunzio portava al dito il giorno del volo su Vienna, e che per lui era un oggetto scaramantico… E c’è la vetrina dedicata ai suoi adorati cani: museruole, frustini, guinzagli, i collari chiodati con le placchette d’argento con incisi i nomi degli animali, che in tarda età il poeta chiamava tutti con nomi che iniziavano per «DAN»: Danzetta, Danchi, Danneggio, Dangiero.
C’è un biglietto, senza data, inviato all’Hotel Cristallo di Cortina alla sua ultima compagna, Luisa Baccara, dalla lettura del quale si fatica a capire se D’Annunzio sia più preoccupato per i suoi levrieri o per l’amata: «Ho avuto una tragedia di sodali. Stop. Danni e Dannozzo fuggirono rimanendo nella montagna due giorni. Stop. Credo che fuggiranno anche le tartarughe. Stop. Prego mandarmi tue buone notizie. Un abbraccio. Ariel».

http://www.ilgiornale.it/cultura/dannunzio_segreto/02-10-2010/articolostampa-id=477285-page=1-comments=1

Il poema satirico da cui partì il grido «Eja alalà»

Maggio 22, 2010

di Giordano Bruno Guerri*

 

Trovare versi inediti di Gabriele d’Annunzio è una festa, prima che un’emozione. Una festa che si è celebrata ieri al Vittoriale degli Italiani, insieme al ritrovamento di altri importanti documenti e all’inaugurazione di un’opera d’arte, di cui diremo. Lo «scherzo poetico» a rime baciate e intrecciate – che viene pubblicato qui per la prima volta – è un manoscritto autografo in 28 fogli, dalla misura singolare: 41,5×15,5 centimetri: lunghi fogli di carta ingiallita, vergati in inchiostro bruno con numerose correzioni.
Priva di titolo, quest’opera rischia di passare alla storia come un «poemetto giovanile», perché così è stato presentato nel catalogo della casa d’aste Bloomsbury. In realtà, «giovanile» è Primo vere, composto e pubblicato dal liceale Gabriele nel 1879, a 16 anni, e già di qualità tale da portarlo agli onori delle cronache letterarie dell’epoca.
Il componimento che potete leggere in queste pagine è databile fra il 1893 e il 1897, ovvero quando d’Annunzio aveva 30-34 anni: certo non aveva ancora scritto i suo capolavori poetici, a partire dall’Alcyone – di inizio Novecento – ma non era né un ragazzino né un giovane autore in attesa di fama. Il Piacere, il romanzo che lo portò alla celebrità, non solo italiana, è del 1889, L’Innocente del 1891. Quanto alla vita privata, nel 1893, a trent’anni, Gabriele aveva già avuto i suoi quattro figli: tre maschi dalla moglie Maria Hardouin d’Altemps di Gallese, e Renata (1893) dalla relazione adulterina con Maria Gravina Cruyllas di Ramacca Anguissola.
Se ci spingiamo fino al 1897, la grande passione per e con Eleonora Duse era già iniziata da due anni, e d’Annunzio era stato eletto deputato alla Camera. In agosto gli era stata offerta la possibilità di candidarsi, nel collegio di Ortona a Mare, in seguito all’annullamento per vizi formali dell’elezione del liberale Filippo Masci, che aveva vinto con appena cinquanta voti di scarto. I conservatori convinsero d’Annunzio, senza sforzi, a rappresentarli nella sua terra contro il repubblicano Carlo Altobelli che, ironia della sorte, lo aveva difeso nella causa di adulterio intentata dal marito della Gravina. A dispetto di quanto il poeta aveva scritto sulla vita parlamentare come vera fogna della moralità nazionale, la prospettiva di entrare a Montecitorio balenò con scintillio irresistibile ai suoi occhi.
Si impegnò molto nella campagna elettorale, e questo spiega la sua presenza, particolarmente assidua quell’anno, in Abruzzo. Il luogo dove questo «scherzo poetico» venne composto forse è Francavilla, ma probabilmente venne declamato nel palazzo del barone Francesco Bonanni d’Ocre, a Fossa, in provincia dell’Aquila: un gioiello di bellezze artistiche e architettoniche purtroppo devastato dal terremoto del 2009.
Fossa è relativamente lontana sia dalla circoscrizione di Ortona sia da Francavilla. Ma il palazzo del barone Bonanni era prediletto per gli incontri di artisti abruzzesi, fra cui Francesco Paolo Michetti, intimo di d’Annunzio. Ecco l’incipit: «A Francavilla / siamo venuti / per darvi un saggio / in tre minuti / (ci vuol coraggio) / della favilla / inestinguibile / immarcescibile / che in core ci arde». Il componimento è palesemente scritto per un’occasione conviviale, piena di amici e parenti: sono citati, per esempio, la sorella Anna con il marito Filippo, insieme a una sfilza di nomi che faranno la gioia degli studiosi abruzzesi e dei legami del poeta con la sua terra d’origine.
Soprattutto, però, «Il testo è di un interesse assoluto, perché contiene in nuce stilemi poetici, temi e topoi del d’Annunzio più maturo», come ha scritto Annamaria Andreoli per il catalogo d’asta Bloomsbury. Agli appassionati di storia interesserà che compaia per la prima volta l’«eja alalà», grido di guerra e di esultanza degli antichi soldati greci che d’Annunzio trovò più consono all’anima latina del barbaro «hip hip hurrah!». Nel poemetto viene usato in un modo giocoso: In alto i cuori! / Eja, alalà; / Passa – o Signori! – / la Nobiltà. Poi ne farà un uso molto più impegnativo.
D’Annunzio lo aveva scoperto in Eschilo e in Pindaro, e finora si riteneva lo avesse usato per la prima volta nella tragedia La Nave (1907) e nella Fedra (1908). Lo usò ancora, urlandolo, nell’agosto del 1917, quando guidò tre raid notturni sulle basi austriache di Pola, e lo riscrisse nella Canzone del Quarnaro, del 1918. Poi il grido sarebbe stato adottato – come altre invenzioni di d’Annunzio, che se ne sdegnava – dagli squadristi fascisti: i quali ne fecero il grido della «violenza inutile» e del «castigo ingiusto», come dichiarò il poeta nel 1921. Del resto né i fascisti, né tanto meno Mussolini, avrebbero mai usato la formula scelta da Gabriele per un suo discorso dal balcone, durante l’impresa di Fiume: «Viva l’Amore! Alalà!»


«Viva l’Amore! Alalà!», grido anch’io, pensando all’abbraccio d’amore di cui ha goduto il Vittoriale degli Italiani nella manifestazione di ieri. Oltre al Poemetto – donato dall’ambasciatore Antonio Spada in rappresentanza dell’Associazione Amici dei Musei di Brescia, abbiamo festeggiato il ritrovamento di oltre seicento documenti d’archivio: le lettere di Alessandra di Rudinì e di Giuseppina Mancini, dal 1903 al 1927. Nel 1963 li aveva sottratti al Vittoriale nientemeno che il suo presidente di allora (non voglio neppure farne il nome), e erano considerati perduti, tanto più che non ne esistevano trascrizioni o copie.
Gabriele d’Annunzio aveva dedicato buona parte del suo tempo, a Gardone Riviera, a recuperare e catalogare la sua corrispondenza, e non potevo tollerare quel vuoto nel nostro Archivio. Nei panni di Sherlock Holmes – seppur con mille sigarette smozzicate dall’emozione al posto della pipa – ho cominciato a indagare tra i numerosi collezionisti di d’Annunzio, e la sorte mi ha aiutato facendomi incontrare il generoso e appassionato Giovanni Maria Staffieri, che mi ha consentito di recuperare i preziosi documenti e di riportarli a Casa: senza alcuna spesa, né per lo Stato né per il Vittoriale. Adesso sono in via di trascrizione e di catalogazione, prima di venire messi a disposizione degli studiosi.
*Presidente
del Vittoriale degli Italiani

siamo il luogo dell’individuale ma spesso finiamo nell’individualismo

Maggio 11, 2010

 

Giordano Bruno Guerri, esiste ancora la Destra o la tradizionale divisione della politica non ha più senso?
«Sì, la Destra c’è e ha ancora senso parlarne e distinguerla dalla Sinistra».
Eppure questo sembra un momento piuttosto difficile…
«Sì, ma sono convinto che i problemi che stiamo attraversando in Italia siano contingenti. Il pensiero ideale della Destra rimane».
Soltanto problemi contingenti?
«La questione è sempre la stessa: la Destra è il luogo dell’individuo, che è una cosa nobile, ma spesso sfocia nell’individualismo, che invece non è una cosa nobile».
Pensa che ci siano princìpi cardine della Destra. Hanno ancora senso Dio, Patria e Famiglia?
«Sono princìpi che dovrebbero restare nel cuore ma non si tratta di una formula unica e univoca. La Destra è molto di più. Inoltre si può fare a meno di Dio e della Famiglia ma non della Patria, che è il cemento di una società e che richiama direttamente l’idea di Popolo. In ogni caso la Destra è anche il luogo del dubbio e della libertà: non può essere ancora legata a uno schema arcaico come quello Dio, Patria e Famiglia».
Che ne pensa di Gianfranco Fini? È diventato di Sinistra o riesce meglio degli altri a interpretare il futuro?
«Fini sta facendo quello che io gli consigliavo di fare cinque o anche dieci anni fa. Quando ero direttore dell’Indipendente. A quel tempo lo spronavo ad avere posizioni più aperte nel dibattito politico».

 
Dunque meglio tardi che mai. Adesso lo promuove?
«Bé, il problema è che in questo momento Fini usa in modo strumentale le cose che dice e che fa. Le lega semplicemente alla contingenza politica e dunque sbaglia».

 
Il presidente della Camera ha creato una corrente e rimprovera al resto del centrodestra di essere poco democratico e chiuso al confronto. Crede che il Pdl rischi di fare la stessa fine del Pd, cioè divorato dalle divisioni interne?
«Penso che la tenuta di Berlusconi sia infinitamente superiore rispetto a ogni capo che ha avuto la Sinistra. Mi sembra davvero difficile fare un parallelo di questo tipo».
Dunque finché c’è il Cavaliere, il Pdl e l’intero centrodestra andranno avanti tranquilli…
«Tranquilli direi di no ma finché il leader sarà Berlusconi il Pdl reggerà e continuerà per la sua strada».
Mi dice una cosa di Destra?
«Meno Stato e più individuo. Questa è certamente una cosa di Destra. Valeva prima e vale ancora adesso. Almeno per la Destra che piace a me».

Alberto DI Majo

IL TEMPO

22/04/2010

NOI GLI EROI LETTERARI, FIGLI DELLO STESSO DOLORE

aprile 6, 2010

Come sostiene Siegfried Lenz, i personaggi dei romanzi diventano veri solo quando il loro destino coincide con le nostre esperienze personali. E così, leggendo Roth, si rivive la scomparsa del proprio amato papà

I personaggi della letteratura «contengono l’intera esperienza del mondo e del cuore umano», ha detto il grande scrittore tedesco Siegfried Lenz ricevendo il premio Nonino, pochi giorni fa. Ma, ha aggiunto, «diventano veri solo nel momento in cui il loro destino coincide con il mio dolore e con la mia nostalgia, con la mia esperienza personale e con le mie cognizioni». È una verità non così ovvia come sembra, e che risulta tanto più ineluttabile di fronte a uno dei maggiori drammi della vita: la perdita dei genitori.
Leggendo Patrimonio, di Philip Roth (Einaudi) ho rivissuto la morte di mio padre in quella del suo. Stati d’animo uguali, dolori e vergogne che sentivo e che non avrei potuto raccontare come ha saputo fare lui. Tanto da rimanerne, insieme, sgomento e sollevato. La lentissima scomparsa di mio padre – per cancro, ormai più di quindici anni fa – fu anche per me l’angoscia di visite mediche che via via davano sempre meno speranze, e sempre più si affacciavano sul vuoto dell’ineluttabile. Lui fingeva di non sapere, non voleva sapere, ma la sua decadenza fisica diventava ogni ora più implacabile. Sapendomi favorevole all’eutanasia, un giorno fece un lungo e faticoso discorso, che avrebbe voluto sottilmente allusivo, per dirmi che – invece – lui no. È facile dirsi «favorevoli all’eutanasia», finché non si tratta di chi ti ha dato la vita, e non voglio neanche pensare se si trattasse di un figlio.

Il babbo perdeva ogni giorno quella che Roth chiama «retta e distesa Verticalità». Insieme perdevamo «la linea maschile, intatta e felice, in ascesa dalla nascita alla maturità». Diventava ogni giorno di più il mio bambino, come oggi lo è mia madre. I muscoli si svuotavano, le pieghe del viso diventavano sempre più straziate, gli occhi chiedevano qualcosa che non aveva risposta. E ogni giorno il mio desiderio che quello sgomento finisse al più presto si scontrava con l’impossibile bisogno di renderlo immortale, di ridare io, a lui, la vita.
Una notte di luglio, sembrava avere ripreso conoscenza. Gli tenevo un braccio intorno al collo, la mano poggiata sulla spalla magrissima. Accanto a noi c’era la mamma, che – come me – non si era rassegnata. Erano nati a nove giorni di distanza, nello stesso paesino, e erano stati battezzati insieme. Il loro amore cominciò lì, al fonte battesimale. D’improvviso il babbo mi guardò, uno sguardo stupefatto, sospirò, chiuse gli occhi e reclinò il capo.

Cominciò, più che il lutto, il rimpianto dei discorsi non fatti, delle incomprensioni irrisolte, del nipote che desiderava tanto e non gli avevo dato. Tutto ciò senza speranza di riscatto, nell’affollarsi dei ricordi. Questo era il vero dolore.

La morte di babbo Ebo, così si chiamava, mi ha almeno costretto a tentare di non ripetere gli stessi errori con mamma Gina, che oggi ha novant’anni, e pigola di gioia per tutta la nostra telefonata quotidiana. Sta bene – benissimo, vivaddio – ma ormai ho dovuto accettare che non è immortale. Mi preparo, come lei si prepara, senza che ce lo diciamo. Per questo ho letto con passione e struggimento vero il libro di Alain Elkann, appena uscito da Bompiani, che racconta la morte di sua madre: Nonna Carla. Un libro molto diverso da quello di Roth, più diaristico che romanzesco, ma che proprio per questo finisce per colpire ancora più a fondo sentimenti e stati d’animo. E fa venire l’atroce timore che, per quanto accorti, per quanto messi in guardia dall’esperienza, si finisca per ripetere sempre gli stessi errori.

Donne diversissime, Carla e Gina, eppure tratti comuni («Chi pagherà l’ospedale?», «Non vendete la nostra casa») e uguali angosce nei figli: la certezza di non averle amate quanto loro hanno amato noi, di non aver loro permesso di entrare nella nostra vita adulta quanto avrebbero voluto e meritato. Tutto, in prospettiva, sembra un ricordo di rancori infantili, di rivalse bambinesche. Soprattutto il peso di non confidarsi abbastanza, di tenerle, in fondo, ai margini della propria vita, come per un desiderio di punirle di qualcosa: del troppo amore che ci hanno voluto. «Non ho mai accettato», scrive Elkann, «di concederle le piccole soddisfazioni che mi chiedeva, e oggi mi dispiace, mi fa sentire stupido».

In questa frase ho ritrovato un rimorso che non c’è più tempo per recuperare davvero. Ma un poco, almeno un poco, forse sì. Ecco la lezione della letteratura di cui parlava Siegfried Lenz: i personaggi dei libri diventano veri solo nel momento in cui il loro destino coincide con il nostro dolore e con la nostra nostalgia, con la nostra esperienza e con le nostre cognizioni. E noi, grazie a loro, forse non diventiamo migliori, ma ci guardiamo allo specchio, alla ricerca di qualcosa che ci renda migliori di loro e di noi stessi.
www.giordanobrunoguerri.it

SCRABRRRRAAANG AL VITTORIALE DEGLI ITALIANI

aprile 3, 2010

CENTO ANNI DI FUTURISMO CON GIORDANO BRUNO GUERRI, GIORNALISTA  E  SCRITTORE, NELLA RESIDENZA DI GABRIELE D’ANNUNZIO – GARDONE RIVIERA

 di Antonio Prenna

 

  

Il 20 febbraio 1909 è ricordato come l’atto di nascita del movimento artistico-letterario chiamato dal suo ideatore Filippo Tommaso Marinetti  con il roboante neo-logismo di FUTURISMO.

L’atto di nascita avvenne con la pubblicazione- sul quotidiano francese LE FIGARO – addirittura in prima pagina- di undici punti programmatici che inneggiavano al superamento del languore romantico e delle idee passatiste (altro modo di dire tipico dei futuristi), preceduti da uno stravagante editoriale, dove si raccontava di un incidente avvenuto a Martinetti, con la sua Isotta Fraschini, episodio all’origine dell’idea del movimento.

Undici –come vedremo-era il numero fortunato del letterato, nato in Egitto e cresciuto tra Milano e Parigi.

“Il futurismo fonda la sua visione del mondo sul completo rinnovamento della sensibilità  umana avvenuto per effetto delle grandi scoperte scientifiche.

Addio all’uomo dell’800: il telefono, l’automobile, il cinema, l’aeroplano hanno

trasformato un nuovo modo di sentire, l’uomo si proietta nel futuro”.

La letteratura esaltò fino ad oggi l’immobilità pensosa, l’estasi e il sonno. Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l’insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo ed il pugno.

Le colorite espressioni, contenute nel manifesto, rappresentano una violenta dichiarazione d’intenti che ha lasciato tracce evidenti nell’arte, nello spettacolo e nella pubblicità e non solo.

C’è un  po’ di futurismo nella nostra vita quotidiana.

L’immagine sul retro dei 20 centesimi di euro riproduce un’opera di Umberto Boccioni

del 1913.

Forme uniche della continuità dello spazio, il suo enigmatico titolo.

La figura di un uomo che cammina viene ripresa come si trattasse di una macchina

umana, energia allo stato puro che si muove nello spazio – pur trattandosi di una forma

scultorea immobile.

C’è un po’ di futurismo nel nostro modo di comunicare con gli sms, usando simboli,

sintesi grafica e numeri, parole allungate, parole in libertà.

C’è stato molto più che un semplice rimando al futurismo in recenti fatti di cronaca.

La fontana di Trevi colorata di rosso nell’ottobre 2007, per protestare contro la festa del

cinema e le 500.000 palline fatte rotolare dalla scalinata di Trinità dei Monti, nel gennaio 2008, per sensibilizzare sui problemi della capitale, in una analoga provocazione dal gusto tipicamente futurista, azioni che hanno fatto diventare famosissimo il suo ideatore,

Graziano Cecchini.

Chiediamo allo storico Giordano Bruno Guerri, che ha pubblicato una biografia di Filippo Tommaso Martinetti –in occasione del centenario- di aiutarci a capire il futurismo in poche parole, anche se non è facile sintetizzare le numerose angolazioni espresse dal movimento in ogni campo: dalla cucina alla sintassi, all’architettura, alla musica, alla politica.

Cento anni dopo che cosa rimane di quella straordinaria avventura intellettuale?

Il futurismo più che capirlo, lo si intuisce, anche abbastanza facilmente secondo me, perché, essendo un movimento precursore, soprattutto nella pittura, ha un gusto che noi adesso possiamo recepire come contemporaneo.

L’incontro con Guerri avviene al Vittoriale degli Italiani, che fu residenza di Gabriele d’Annunzio.

Non è un caso aver scelto come location dell’intervista il luogo che più di tutti ricorda il poeta e romanziere abruzzese.

Giordano Bruno Guerri è presidente della Fondazione Vittoriale ed è qui un paio di volte al mese, inoltre le vicende umane ed artistiche di Marinetti si sono spesso incrociate con quelle del Vate d’Annunzio.

Guerri ha pubblicato nel 2008 una biografia del poeta nato in terra d’Abruzzo, D’ANNUNZIO POETA-GUERRIERO e in questo 2009 MARINETTI INVENZIONI AVVENTURE E PASSIONI DI UN RIVOLUZIONARIO..

Le biografie di Marinetti e d’Annunzio sono frutto di una stessa ricerca storiografica, altrimenti sarebbe stato impossibile, pubblicare a distanza di un solo anno  i due volumi, dice Giordano Bruno Guerri, aggirandosi nei locali del Museo della Guerra, quella che doveva essere la nuova residenza di d’Annunzio e che l’accolse soltanto il giorno del funerale.

Con una certa apprensione il presidente del Vittoriale cerca la bacchetta da direttore d’orchestra che Toscanini usò a Fiume, dove tenne un concerto, durante l’occupazione dei legionari del Vate.   

Gli ambienti in cui visse il poeta al Vittoriale, affatto sobri e anzi ridondanti di un gusto lontano dal futurismo, con stanze riccamente arredate, piene di collezioni e di quadri e di damaschi e tappeti e libri su libri, con simboli sulle pareti e scritte in latino dappertutto, potrebbero comunque  stonare con Marinetti, che voleva uccidere il chiaro di luna, cioè d’Annnunzio che all’epoca ne era il cantore più appassionato, tanto da divenire proverbiale. Si dice dannunziano per dire decadente. Marinetti invece guarda avanti, non dentro di sé.

L’atmosfera del Museo-dico a Guerri-sarebbe piaciuta a Effetì –come lo storico chiama confidenzialmente Martinetti nella sua biografia-, anche se il museo è  successivo-aggiungo-, nella sua forma attuale, alla morte di d’Annunzio.

Guerri si sposta negli ambienti cercando un mobile o una lampada di Giò Ponti che non trova. Si aggiusta la cravatta nera sottile stile punk specchiandosi dentro il bagno che fu del Vate. Gli dico attenzione agli allarmi che possono suonare. Lui sorride compiaciuto rispondendo pazienza, sono il presidente no?

Poi si avvicina ad un curioso oggetto di metallo, dove si legge su una targhetta “dono degli Aeroporti Futuristi”. E’ una scultura ready-made, ritrovata in abbandono da qualche parte ed ora orgogliosamente mostrata.

E’ una rarissima scultura, opera di Martinetti, che donò a d’Annunzio durante il loro ultimo incontro, il 10 febbraio 1938, cioè dieci giorni prima che d’Annunzio morisse ed è una doppia leva di un bimotore Caproni e il significato dell’opera è che loro due –Marinetti e d’Annunzio – sono i motori della nuova Italia.

E’ stato fatto successivamente perché d’Annunzio nelle sue disposizioni testamentarie scisse tra le altre cose si creasse un museo della guerra. Infatti ci teniamo ancora questo nome – che non è molto attraente, anzi decisamente respingente-per rispetto filologico ai desideri di d’Annunzio.

Il compito del presidente della Fondazione Il Vittoriale, è un po’ fare la vedova di d’Annunzio, cioè manteenerne la memoria, valorizzarne il ricordo, proteggerne le cose eccetera, cosa che io faccio molto volentieri.

Torniamo a Martinetti.

Effetì tra le sue centinaia di intuizioni – fra cui l’uomo bionico, con pezzi di ricambio eccetera-parlava anche di una rete che avrebbe avvolto il mondo e avrebbe permesso comunicazioni velocissime e simultanee tra gli uomini e fra individui e individui.

Addirittura internet?

E’ internet. Martinetti non avendo gli strumenti linguistici per definire le rete che immagina, usa dei termini anche abbastanza buffi, ma lo spiega, lo preconizza.

Ci spostiamo ancora. Accanto allo scalone che porta allo studio, le eliche di un aereo Caproni e sullo sfondo il gonfalone, della Reggenza del Carnaro, ricordano contraddittoriamente un’epopea che preannuncia i movimenti libertari, inneggiando allo stesso tempo all’unica igiene del mondo, rappresentata dalla guerra.

Dico a Guerri che è difficile entrare nelle corde della mistica della guerra che trasuda da ogni particolare del museo.

Noi facciamo fatica a capire la mistica della guerra sia di d’Annunzio, sia di Martinetti, però bisogna calarsi nell’epoca. Non erano solo due pazzi isolati che invocavano la necessità della guerra. Intellettuali di tutta Europa – anche miti come Thomas Mann e Sigmund Freud- parlavano della ineluttabilità della guerra che doveva porre fine a un’epoca e creare un mondo nuovo. Quindi la guerra veniva sentita come indispensabile da molti e infatti poi molti giovano furono influenzati da questi grandi maestri.

Ci  accomodiamo nel vasto studio al piano superiore e ci sediamo alla scrivania di d’Annunzio.

Dico: l’uso della pubblicità in Marinetti è geniale. Tappezza le vie delle più grandi città italiane di manifesti enormi dove c’è semplicemente scritto a caratteri cubitali: F.T.MARINETTI=FUTURISMO. Guerri non si scompone.

Sono genialità, invenzioni che anticiperanno anche in questo caso gli studi di Mac Luhan su “il mezzo è il messaggio”. Martinetti trova il modo di suscitare la curiosità, sapendo che la curiosità era il miglior propellente per la conoscenza.

Vedendo una cosa così clamorosa MARINETTI=FUTURISMO su un lenzuolo rosso attaccato in tutta Italia, ci si chiedeva ma che è ‘sto futurismo, chi è ‘sto Martinetti. E’ una cosa che è stata ripresa molti anni dopo e io mi ricordo la sorpresa che all’inizio degli anni 90 suscitò uno strano manifesto che non pubblicizzava niente, dove c’era un neonato su fondo tricolore la scritta FORZA ITALIA.

In occasione del centenario, al futurismo la stampa  ha concesso ampio spazio:

resoconti delle numerose mostre inaugurate a Milano, Roma alle scuderie del Quirinale, a Rovereto, a Venezia; dell’uscita di una vasta pubblicistica sull’argomento, dei volumi editi, degli eventi organizzati un po’ ovunque in Italia, l’inserto “Tuttolibri” de “La Stampa” titola: futuristi carta straccia, nell’occhiello:innegabile creatività nell’arte, ma per il resto una  modestia sconfortante.

Il Domenicale del “Sole 24 ore”. Al galoppo verso il futuro.

Su Repubblica il critico d’arte Achille Bonito Oliva scrive:

“il manifesto esplode come una violenta deflagrazione sullo sfondo di un’Italia contadina e analfabeta”

“Il Giornale” propone un’intervista alla figlia di Martinetti- cui il padre dette un nome molto futurista -ALA:

“Ricordo che certe notti mio padre aveva delle illuminazioni poetiche,

si svegliava anche mia madre che prendeva appunti”

Ancora un titolo tratto da “La Stampa” di Torino che titola:

il futurismo rifà l’universo, l’avanguardia che accenderà l’immaginario del secolo

E ancora “Repubblica” dove si legge il resoconto delle numerose mostre dedicate al centenario. Cesare de Seta scrive: il futurismo è tra i pochi eventi del 900 che pone l’Italia in prima fila

Giordano Bruno Guerri sul giornale propone in 11 punti (11, il numero fortunato per Filippo Tommaso) un manuale per veri marinettiani: da “automobile” a “velocità” passando per “guerra”, “donna”,  “cucina”.

infine L’OSSERVATORE ROMANO incuriosisce nell’articolo  intitolato RITORNO AL FUTURISMO  dove numerosi sono gli apprezzamenti verso un movimento che intendeva addirittura SVATICANARE l’Italia. Che ne pensa Guerri?

Che il Vaticano riconosca oggi l’eccellenza del futurismo credo che lo faccia soprattutto come movimento artistico, non riferendosi alla sua morale o atteggiamento verso la Chiesa, è un segno culturale buono, di riconoscimento di un movimento che comunque aveva valore in sé, e poi la Chiesa è abbastanza generosa con i nemici sconfitti.

«Noi siamo intraprenditori di demolizioni», scriveva Marinetti, quando ha già dato l’assalto iconoclasta contro le «idee-muri da sfondare» ed esibito il rifiuto come biglietto da visita. Il secolo nuovo impone svolte radicali, il passato è un catasto polveroso di abitudini da archiviare. L’avanguardia non può che essere l’ideologia della modernità, esaltata dalla metropoli e dalla tecnologia.

Ritorniamo al manifesto pubblicato su Le Figaro.

Siamo ora di fronte alla Isotta Fraschini di d’Annunzio, prezioso reperto di un’epoca scintillante.

Secondo Marinetti il futurismo nacque quando lui ebbe un incidente con una Isotta Fraschini simile a quella di d’Annunzio, conservata al Vittoriale, un modello successivo- e da pessimo pilota qual era cadde in un fosso.

In realtà è una leggenda che Martinetti ha inventato così come non è vero che l’abbia scritto il manifesto in un unico giorno – l’11 ottobre 1908- lo scrisse in varie rielaborazioni sia in italiano, sia in francese, comunque, indipendentemente da come è stato fatto, stando agli effetti, il manifesto del futurismo è uno dei capolavori letterari del 900, un modello per tutti i manifesti, successivi, non solo futuristi.

Intanto piove a dirotto, il languore decadente che Marinetti voleva sovvertire si registra fortemente di fronte al lago di Garda, in questo 6 febbraio 2009, il giorno dopo la primissima pubblicazione del manifesto su “Il Giornale dell’Emilia” di Bologna.

Stringere tra le mani i comandi del bimotore Caproni, è stato certamente un buon modo di festeggiare l’anniversario.

Ancora mi chiedo se quello di Marinetti era dalla parte destra o al contrario.