Archive for the ‘dibattito’ Category

Quel che l’America legge in Toni Negri

ottobre 25, 2010

di Federico Rampini, la Repubblica, 14/09/2010

New York. È un segno della confusione dei tempi: Candy Crowley, la più autorevole anchorwoman politica di Cnn, nel suo Tg fa un elogio del nuovo capo-economista della Casa Bianca, Austan Goolsbee, «perché finalmente cita Marx e Trotsky nei suoi discorsi». Goolsbee ha solo 41 anni e ha già alle spalle una brillante carriera accademica alla University of Chicago. Ma sì, proprio quella di Milton Friedman, il padre del neoliberismo reaganiano. Suo amico di lunga data, Obama lo ha appena nominato alla guida del Council of Economic Advisers. Ma Goolsbee ha un vizietto che di questi tempi potrebbe giorcargli brutti scherzi: adora dissacrare, ironizza su se stesso e sul presidente, va ai talkshow satirici come quello di Jon Stewart a fare l’auto-caricatura dell’economista-guru.

Le sue citazioni di Marx e Trotsky – «i testi sacri che abbiamo rispolverato per capire questa crisi» – sono frecciate contro l’accademia e il pensiero unico che ha dominato la politica economica americana negli ultimi trent’anni. Colpisce nel segno, anche perché la destra americana è pronta a vedere il socialismo in agguato dietro l’angolo. E questa è senza dubbio una chiave del sorprendente successo di Toni Negri in America. Ora che esce in Italia la traduzione della sua ultima opera firmata con Michael Hardt, Comune (Rizzoli), vale la pena ricordare com’è stata accolta un anno fa negli Stati Uniti. In un’America sotto choc per la sua recessione più grave dagli anni Trenta, il Wall Street Journal salutava il saggio di Negri con un «Benvenuti nel Manifesto del partito comunista, versione 2.0», come si usa designare l’ultimo e più avanzato modello di un software digitale. Il quotidiano di Rupert Murdoch, la Bibbia della classe dirigente capitalista, sentenziava in quell’occasione: «Karl Marx è tornato di moda». E aggiungeva: «Antonio Negri e Michael Hardt sono nella posizione ideale per sfruttare questo revival visto che il loro libro reinventa un marxismo per il XXI secolo». Per Brian Anderson, sulla pagina dei commenti del Wall Street Journal che è un barometro fedele dell’intellighenzia di destra, «è inquietante che Comune sia stato pubblicato sotto un’insegna prestigiosa come quella della Harvard University Press». Il saggio è pericoloso? Abbastanza da essere definito: «la miscela dello stregone del radicalismo contemporaneo». La fortuna di Negri, in un certo senso, coincide con la sfortuna di Obama.

La trilogia composta dalle opere Impero, Moltitudine e Comune non si distingue molto da quella prolifica vena di saggistica anti-capitalista, anti-globalizzazione e anti-americana che ha conosciuto un boom almeno dai tempi della rivolta di Seattle contro l’Organizzazione del commercio mondiale, nel 1999. Risale a quelle giornate di guerriglia urbana la rinascita di un movimento di contestazione radicale, che si voleva erede del Maggio Sessantotto, delle lotte operaie e studentesche degli anni Settanta. In qualsiasi libreria italiana o francese, tedesca o spagnola, la trilogia di Negri-Hardt si perde in mezzo a una montagna di opere simili, e similmente ripetitive. In America però tocca un nervo scoperto. Coincide con i sospetti della destra, soprattutto l’ala populista e movimentista del Tea Party, sul presunto “socialismo” di Obama e del suo clan. Nell’arco di dodici mesi, la crisi che ha messo a nudo tutte le storture del capitalismo americano, è stata rovesciata contro l’attuale presidente e viene riletta come una crisi dovuta all’eccesso di interventismo pubblico, al ritorno dello Stato Leviatano.

Comune diventa così un testo sospetto, perché gli oltranzisti di destra guidati da Sarah Palin e Glenn Beck hanno questo in comune con Negri: sono convinti anche loro che il comunismo sia attuale, praticamente dietro l’angolo. Quello della Casa Bianca.

Antonio Negri – Fabbrica di porcellana. Per una nuova grammatica politica.

ottobre 21, 2010

di Gianmaria Merenda

Le intenzioni di Antonio Negri sono espresse chiaramente all’inizio del testo e si ripresentano varie volte nello sviluppo delle lezioni: “Queste lezioni, tenute nel 2004-2005 al Collège internationale de philosophie, a Parigi, si sono date il compito di cogliere il passaggio dalla modernità alla postmodernità nelle analisi della scienza politica e della filosofia. Il loro punto di partenza è consistito innanzitutto nel tentativo di circoscrivere il linguaggio politico corrispondente a questa transizione” (p. 5); “Un invito collettivo ai ricercatori di buona volontà perché si consacrino alla redazione di un nuovo vocabolario postmoderno del campo politico […]” (p. 8); “Quello che qui ci interessa è innanzitutto la riforma del lessico politico – in particolare quando si arriva a toccare nozioni come quelle di “diritto soggettivo”, di “cittadinanza”, di “esercizio del potere costituente” o, ancora, di “democrazia”” (p. 100); “Insomma: una nuova Enciclopedia” (p. 110). La successione serve solo a mettere in luce la continua e pressante esigenza dell’autore, da pagina 5 a pagina 110, di ricordare al lettore, forse anche a sé stesso, l’obiettivo delle lezioni. Credo che in questo modo si possa cogliere la continuità dell’azione.

Negri in queste lezioni parigine ha ben in mente un suo pubblico ideale: “ai socialisti e i comunisti che hanno vissuto onestamente e che hanno pensato la loro esperienza nei vecchi termini dialettici del marxismo-leninismo” (p. 8).

La prima lezione affronta la cesura che si è creata tra il moderno e il postmoderno. Negri indica il postmoderno come tutto ciò che è successivo “alla crisi dello stato-nazione”. Attorno a questa cesura si è coagulato un pensiero della politica che è rimasto imbrigliato in una dialettica sostanzialmente binaria: da una parte l’accettazione del potere per quello che è, dall’altra la negazione del potere. “Una vasta omologia della concezione del potere nel pensiero moderno” (p. 12). Questo pensiero ‘imbrigliato’ nasce dalle teorie politiche di Weber, Schmitt e Lenin: “Ripetiamolo: nei due casi che stiamo analizzando [accettazione del potere o negazione dello stesso, ndr.], si tratta di una doppia impasse che pretende di obbligarci a scegliere tra due possibilità. La prima consiste nel prendere il potere e diventare un altro potere – cioè, malgrado tutto, sempre e ancora un potere; la seconda cerca di negare totalmente quel potere sulla vita che è, allo stesso tempo, una negazione della vita stessa” (p. 15).

Il problema postmoderno che ha scardinato la concezione binaria del potere, per questo insieme di lezioni, è il ‘lavoro immateriale’, di concetto, creativo. Il lavoro materiale ha ormai fatto il suo corso, “si è trattato di una sfida operaia e insurrezionale che ha messo in crisi sulla lunga durata (esattamente quella che altri hanno definito come il “secolo breve”) l’insieme del lavoro organizzato” (p. 17). Una spina nel mondo capitalistico che non provoca più fastidio, il lavoro materiale è sempre più de-localizzato, è altrove. Nell’immateriale deve quindi svilupparsi l’insurrezionale negriano. Infatti, una seconda cesura postmoderna “si gioca attorno alla ridefinizione del concetto di sovranità” (p. 18), il controllo del biopotere è passato dall’individuo all’intera popolazione. Ecco rispolverato il concetto foucaultiano di biopolitica che per Negri non è un ritorno al reazionario vitalismo, ma al contrario un tentativo “di far ripartire il pensiero (e la riflessione sul mondo) dall’artificialità – intesa come rifiuto di ogni fondamento naturale – e dalla potenza della soggettivazione” (p. 29).

Per comprendere queste cesure e la necessità di rinnovare il concetto di biopolitica Negri illustra le tre forme caratteristiche del pensiero postmoderno: il ‘pensiero debole’ che “riduce la soggettività alla circolazione mercantile” (p. 24) – gli autori di riferimento sono Lyotard, Baudrillard, Vattimo e Rorty -; il pensiero come ‘resistenza marginale’ oscillante tra una sorta di “feticismo delle merci” (p. 24) e la tentazione di un’escatologia mistica – autori di riferimento Derrida, Agamben, Nancy e Benjamin – ed infine il pensiero “come postmoderno critico, ovvero come riconoscimento non solo della nostra fase storica ma dell’antagonismo che le corrisponde […] come ricostruzione di uno spazio di soggettivazione” (p. 24) – autori di riferimento Foucault e Deleuze. Qui secondo Negri si troverebbe la soluzione del problema postmoderno. Le filosofie politiche e della differenza di Foucault riescono ad essere i motori di una nuova soggettivazione.

È proprio la soggettivazione che permette di avvistare un’eccedenza di potenza del lavoro cognitivo perché questo non è facilmente quantificabile, riducibile a pura merce: “La potenza è al contrario il non-misurabile, l’espressione pura delle differenze irriducibili” (pp. 34-35).

Da questa descrizione della potenza si passa al concetto di moltitudine che è il luogo, forse il ‘piano d’immanenza’ deleuziano, in cui si incrociano le ‘differenze irriducibili’ poco sopra descritte: “La moltitudine deve dunque essere necessariamente pensata come una molteplicità non organica, differenziale e potente” (p. 40).

“In generale vi sono due obiezioni che vengono formulate contro la definizione del concetto di moltitudine: la prima consiste nel denunciare la sua incapacità a presentarsi in quanto forza antisistemica, la seconda obietta che non è possibile descrivere il passaggio della moltitudine dall’in sé al per sé, ovvero di definirla in quanto istanza di ricomposizione unitaria capace, dunque, di sviluppare un’azione politica efficace al di fuori di ogni mistificazione dialettica” (p. 55).

Nell’insieme di differenze irriducibili che formano la moltitudine negriana però si aboliscono le gerarchizzazioni salariali: “Non c’è alcuna ragione di distinguere e di gerarchizzare le forme di salario” (p. 59). Le differenze salariali e di gerarchia sono con ogni probabilità l’ultimo appiglio che una visione capitalistica del mondo, opposta a quella di Negri, poteva recriminare per conservare un minimo di ‘mercificazione’ dell’antisistemica moltitudine. L’autore quindi per non incorrere in questo rischio le esclude a priori.

La moltitudine si ‘esprime’, per mutuare ancora un concetto deleuziano, nel comune: “Il comune si presenta sotto forma di un’attività – e non come un risultato; si presenta sotto forma di un concatenamento, di una continuità aperta e non come una densificazione del controllo” (p. 61). Ovvio che l’espressione del comune ha delle implicazioni sul reale: “Il diritto comune non è pensabile che a partire dalla distruzione dello sfruttamento – che questo sia pubblico o privato – e dalla democratizzazione radicale della produzione” (p. 67).

Il ‘comune’, dunque, in quanto resistenza allo status quo e in quanto momento ‘costituente’ avverte e chiama la violenza: “Quando abbiamo parlato di resistenza […] non abbiamo escluso la violenza politica. la violenza politica è semplicemente una funzione dell’agire politico democratico, poiché anch’essa mostra, alla sua maniera, la resistenza, e perché impone l’antagonismo là dove lo stato non può che affermare il suo dominio e il suo controllo” (pp. 113-114).

È possibile agire con la violenza politica nel reale e non solo nelle idee teoretiche? Dove deve svilupparsi questa violenza politica? Negri non ha dubbi, nell’Impero: “L’Impero è la sola dimensione spazio-temporale, etica e ontologica, politica ed economica, nella quale la moltitudine possa dedicarsi a una sperimentazione pratica della libertà. […] Un interregno durante il quale uno stato di fatto sovversivo e rivoluzionario si è affermato in maniera decisiva” (p. 127). È in questa cesura, tra moderno e postmoderno, che la moltitudine dovrebbe esprimere la propria potenza. Il momento è propizio. Difatti anche il concetto di rivoluzione è toccato dall’analisi politica di queste lezioni: “La rivoluzione è un’accelerazione del tempo storico, la realizzazione di una condizione soggettiva, di un evento, di un’apertura, che concorrono a rendere possibile una produzione di soggettività irriducibile e radicale” (p. 142).

Sul finire del testo appare ciò che sembra essere il vero oggetto della ricerca. Non tanto la creazione di un nuovo lessico politico ma il consolidamento di un vecchio concetto, il conflitto: “Ecco che dappertutto ritroviamo il conflitto trascendentale” (p. 153).

Non ci sentiamo di avallare questo pensiero politico perché non pare ‘nuovo’, come era invece stato pensato nelle intenzioni di Negri nella prefazione del testo, e perché porta con sé il seme della violenza. Purtroppo non si è intravisto il rinnovamento dell’Enciclopedia politica. La violenza, che sia trascendente o trascendentale poco importa in questo frangente, è sempre stata uno dei concetti cardine nella tassonomia della filosofia politica, non occorre ricordare in questo luogo le occasioni del suo richiamo. Rimaniamo per questo motivo in attesa dei risultati del lavoro dei ricercatori ‘di buona volontà.

http://www.recensionifilosofiche.it/crono/2008-12/negri.htm

FUTURISTI

ottobre 20, 2010

Amici futuristi della Libertà, il vostro Fini sono io, non altri

Consigli accademici per fermare il calo dei consensi e ritrovare la leadership

di Marina Valensise

Onorevoli colleghi,

Potevo fare di quest’Aula sorda e grigia un bivacco di manipoli; sprangare il Parlamento e costituire un governo esclusivamente di uomini del Pdl. Ma non l’ho fatto. Se oggi sono qui davanti a voi, è perché intendo dar prova di rinnovata fiducia. Di questo il paese ha bisogno ritrovare slancio e prendere la strada di un futuro migliore. Mi rivolgo dunque a voi Futuristi della libertà, al gruppo che il presidente della Camera ha raccolto intorno a sé con un intento indecifrabile, per dirvi: se davvero volete essere una destra illuminata, servire la nazione, e non servirvi della nazione, ebbene il vostro Fini è Berlusconi, non quell’aspirante leader che nutre nell’ombra l’ingratitudine e il rancore. Venite con noi, serrate le file, superate il dissidio. Siete i custodi del patrimonio di una destra moderata e liberale? Il vostro programma è il nostro. Quattro punti lo dimostrano e la giustizia è il primo. Volete difendere la legalità? Non avete altra scelta che approvare la riforma che introduce la separazione delle carriere, tra chi esercita il ruolo dell’accusa e chi si trova in quello di arbitro. Noi intendiamo sottrarre al Csm la giustizia domestica, privarlo delle competenze disciplinari, creando invece un organismo autonomo, formato da membri eletti, scelti dal capo dello stato, dal Parlamento, dalla società civile, che vigili autorevolmente sull’autogoverno della magistratura.Avete a cuore gli interessi del Mezzogiorno? Non fatevi irretire dai nemici del federalismo, votate con noi l’attuazione della riforma nel rispetto della sussidiarietà e dell’unità nazionale. Volete salvaguardare lo stato? Promuoviamo insieme il rilancio del sud, con un piano di grandi infrastrutture, col controllo sui centri di spesa, con la defiscalizzazione, i porti franchi, e un’agenzia di tecnocrati ad hoc che insegnino agli amministratori del sud come fare uso virtuoso dei fondi europei. Volete rilanciare la crescita? Non possiamo ridurre la pressione fiscale, ma dobbiamo sostenere la lotta contro l’evasione, snidare gli evasori, rendere la vita impossibile a chi frodando il fisco lede gli interessi di tutti. Davvero avete a cuore un rinnovato senso dello stato, il principio della legalità? Sostenete il governo che più di ogni altro, nella storia repubblicana, ha operato contro la criminalità organizzata e i suoi loschi traffici. Non avete alternative. Gli italiani lo sanno.

FOGLIO QUOTIDIANO


La successione a Berlusconi
La lotta nel Pdl per l’eredità

Dico la verità: mi sarei aspettato che dopo le critiche mosse dal Presidente Berlusconi al suo partito, alle responsabilità che a suo giudizio questo avrebbe nella perdita di popolarità del governo, i tre coordinatori dello stesso Pdl — Bondi, La Russa e Verdini—avrebbero in merito detto qualcosa, mosso qualche obiezione, insomma si sarebbero difesi e avrebbero difeso il loro operato. Come del resto avevano fatto più e più volte in precedenza, rispondendo puntualmente e puntigliosamente a tutte le critiche apparse sui giornali o altrove (ricordo, per esempio, una lunghissima lettera indirizzata a chi scrive pubblicata sul Corriere il 4 marzo scorso). Invece niente, neppure una parola. Evidentemente ci sono interlocutori ai quali è permesso ribattere e altri, invece, con i quali è consigliabile osservare un prudente silenzio.

Ma ancora più stupefacente, in tutti questi mesi, è stato il silenzio da parte di qualcosa che pure aveva nome partito — sempre il Pdl, appunto — di fronte al sistematico prevalere nelle scelte del governo delle esigenze degli alleati leghisti. Silenzio di tomba perfino dopo l’ultimo Consiglio dei ministri, dove — per dirla nella maniera più spiccia — Berlusconi ha tranquillamente venduto alcuni ministri del suo partito (Gelmini, Prestigiacomo, Bondi, Galan e Meloni) al diktat della coppia Tremonti-Bossi.

Quando succedono cose del genere, o quando si ascoltano critiche come quelle di cui sopra mosse da Berlusconi, nei partiti, in quelli veri, non c’è il silenzio dei massimi responsabili (e di tutti gli altri). Scoppia invece la discussione, il confronto, magari il litigio. Il punto dunque è sempre e solo uno: e cioè che il Pdl (così come prima Forza Italia), di plastica o no, comunque non è un partito vero. Nel caso migliore è una coorte di seguaci ciechi e muti scelti inappellabilmente dal capo; nel caso peggiore una corte d’intrattenitori, nani, affaristi, ballerine, di addetti alle più varie intendenze. Certo, il Pdl è anche un partito votato da tanti degnissimi italiani. Ma sappiamo tutti che i voti in realtà non vanno al Pdl, vanno alla persona di Berlusconi.

Ma se le cose stanno così, questo significa che l’operazione storica di sdoganamento della destra compiuta da Berlusconi nei confronti del sistema politico italiano — sì, un’operazione storica: riconoscerlo è un obbligo di obiettività che anche la sinistra sarebbe ora sentisse — questa operazione è tuttavia, per sua stessa colpa, rimasta a metà. Berlusconi, infatti, ha sì sdoganato la destra elettoralmente e sul piano del governo, ma non è riuscito a sdoganarla socialmente e culturalmente. Non c’è riuscito nell’unico modo in cui da sempre ciò avviene, e cioè creando e radicando sul territorio un vero partito, organizzato e strutturato come tale, portatore di esigenze, centro di relazioni con ambienti e personalità diverse, elaboratore di proposte, collettore di idee. E soprattutto, almeno in certa misura, centro effettivo di decisioni vincolanti per tutti, anche per i suoi capi.
Non c’è riuscito perché non ha voluto, naturalmente. E non ha voluto per tre ragioni: per la paura che ciò avrebbe comunque diminuito il suo potere; per un riflesso padronale creatosi in decenni di comando aziendale, in base al quale «se io ci metto i soldi (e per giunta prendo i voti), io comando»; e infine per il difetto, che in lui è abissale, di vera cultura politica.

Lo sdoganamento della destra italiana rischia dunque, così, di finire con Berlusconi. Se le cose continuano nel modo attuale, infatti, quando il presidente del Consiglio si ritirerà dalla scena politica, il Pdl rischia verosimilmente di sfasciarsi nel giro di tre mesi, lasciando i suoi esponenti a galleggiare come turaccioli su quella marea di voti che solo Berlusconi riusciva a suo tempo a prendere, ma che ora saranno allo sbando, nella più totale libera uscita. Quale elettore di destra, infatti, si potrà mai sentire motivato a votare per Verdini, la Brambilla o Scajola? Per persone che come proprio titolo di merito saranno in grado di esibire, a quel punto, solo quello dell’obbedienza perinde ac cadaver?

Ma c’è Fini, si dice: perché non potrebbe essere Fini a portare a termine l’opera iniziata da Berlusconi? Fare profezie è vano, ma mi sembra assai difficile che lo sdoganamento ideologico-politico della destra italiana, la creazione finalmente di un suo vero partito, possano avvenire per opera di chi è stato l’ultimo segretario del partito neofascista, di chi per anni e anni si è nutrito di quegli ideali, lo ha diretto con quei metodi, con quello stile. Neppure agli ex comunisti è riuscita in modo indolore e in tempi brevi un’operazione di sdoganamento e di rifondazione che in fondo presentava da tanti punti di vista ben minori problemi; figuriamoci se può riuscire a un personaggio come Fini, che ancora non moltissimi anni fa sosteneva che Mussolini era «il più grande statista del Novecento». A me pare che in realtà, Fini—come D’Alema, come Casini, come Rutelli, come Bersani, come Fioroni, come tutta una classe politica— appaia ancora e sempre immerso per intero nel vecchio scenario della morente prima Repubblica, nella sua paralizzata e paralizzante inconcludenza. Da chi come Fini ha come primo obbligo quello di mostrarsi sempre e comunque fedele osservante delle polverose regole della democrazia italiana, dei suoi tic e dei suoi tabù, è difficile attendersi rotture e novità di qualsiasi tipo.
Sembra proprio, dunque, che dobbiamo rassegnarci: il berlusconismo è l’unica benché fangosa novità politica toccata in sorte all’Italia in questi anni. Per il dopo siamo ancora in attesa.

Ernesto Galli Della Loggia
18 ottobre 2010

Verso la nuova politica, contro le oligarchie-Corsera.it

19 ottobre 2010

di Gianfranco Fini

L’editoriale  di Ernesto Galli della Loggia affronta direttamente, senza ipocrisie e titubanze, la situazione in cui si trova il centrodestra italiano. Accanto alla riflessione molto critica nei confronti del Pdl, viene affrontata anche la questione della futura leadership della destra italiana ed essendo stato direttamente chiamato in causa non posso esimermi dal rispondere.

Galli della Loggia illustra con nettezza il problema che ormai da molto tempo viene denunciato da studiosi e osservatori che si riconoscono nell’area cosiddetta finiana, e che io stesso ho ripetutamente posto, ovvero che la leadership berlusconiana non ha consentito, e forse nemmeno voluto, la creazione di un vero partito “organizzato e strutturato come tale, portatore di esigenze, centro di relazioni con ambienti e personalità diverse, elaboratore di proposte, collettore di idee”, nonché, “centro effettivo di decisioni vincolanti per tutti, anche per i suoi capi”. Forse proprio la mia lunga esperienza alla guida di un partito vero, dove l’esercizio della leadership e la gerarchia hanno sempre fatto con i conti con il pluralismo e la competizione interni, mi ha reso più refrattario ad accettare il partito non-partito che è diventato il Popolo delle Libertà.

Ma questa esperienza mi viene rinfacciata da Galli della Loggia, che sbrigativamente mi liquida come “l’ultimo segretario del partito neo-fascista”. Io non nego ciò che sono stato, non nego il mio passato. Di quel passato conservo la ferma convinzione che la politica sia innanzitutto uno strumento al servizio della comunità nazionale e dei suoi cittadini e in una prospettiva più ampia, uno strumento che può aiutare a costruire un futuro migliore, più sicuro e più prospero, per tutti.

Tuttavia, rivendico il diritto di cambiare opinione, assumendone tutta la responsabilità. Accade di cambiare opinione, quando ci si pone con umiltà e senza pregiudizi di fronte alle cose della vita, alla storia, ai mutamenti che investono la società nella quale si vive. E in questo mio percorso, politico ma anche esistenziale, ho guidato il mio partito verso il cambiamento. Credo in buona fede di avere raggiunto dei risultati: non sono stato solo l’ultimo segretario del Movimento sociale, sono stato anche il primo di Alleanza Nazionale, l’artefice di Fiuggi e della faticosa strada che ne è seguita. Quando mi sono recato in Israele è stato anche attraverso la piena e profonda comprensione della tragedia della shoah e delle responsabilità del fascismo che ho cominciato ad osservare con nuovi occhi il passato, il presente e il futuro. E così ha fatto chi da destra mi ha seguito in questo lungo e importante percorso. In questa avventura personale e politica ho incontrato anche nuovi compagni di strada, che mi sono oggi vicini e, pur con altre storie politiche alle spalle, oggi con me condividono la speranza di una Italia diversa.

Galli della Loggia mi imputa anche di essere “ancora e sempre immerso per intero nel vecchio scenario della morente prima Repubblica”. Non mi sento immerso in quello scenario; sento di essere parte di una piccola storia, la storia del nostro Paese, la storia di un Paese che è transitato da una situazione politica e culturale condizionata dal passato autoritario, dalla Guerra fredda e dai grandi “partiti Chiesa” a una fase dove la modernizzazione della politica e della società e le resistenze a quella modernizzazione hanno convissuto per più di un quindicennio e continuano a convivere. Mi sento figlio del mio tempo, di questo tempo convulso, mi faccio carico della mia storia, ma guardo avanti.

Considero quello della prima Repubblica un ciclo che si è chiuso e la sfida è proprio quella di essere capaci di operare nel proprio tempo e di farsi carico delle trasformazioni epocali che dobbiamo governare e trasformare in opportunità, per non esserne travolti. L’Italia se lo merita e la classe politica non può annegare nel presentismo o peggio continuare a rinfacciarsi il passato.

La scommessa che abbiamo fatto con Futuro e Libertà è difficile da vincere, ma non impossibile. Dobbiamo muoverci tra resistenze passatiste, rappresentate da interessi corporativi ancora potentissimi e tendenze culturali alla conservazione di un vecchio modo – consensuale e consociativo – di fare politica, e una modernizzazione non compiuta e “viziata” da una anti-politica che ha emarginato ogni serio discorso sulle regole, sulla loro innovazione e sugli strumenti per fare politica, a partire da partiti, nuovi ma solidi e radicati.

Forse, muovendoci in questo angusto spazio, abbiamo dato l’impressione di scivolare nelle “polverose regole della democrazia italiana, dei suoi tic, dei suoi tabù”. Forse abbiamo commesso errori di comunicazione, perché non sono certo quelle regole, quei tic e quei tabù che vogliamo preservare.

Se oggi insistiamo sul tema della legalità, è perché in Italia il rispetto delle regole è sempre più considerato una opzione, non un dovere, nella società così come in parte della classe politica, e la incidenza del malaffare e della corruzione è ormai divenuto il principale problema per lo sviluppo e la ripresa della nostra società e della nostra economia. Tuttavia, siamo ben consapevoli che questo non deve e non può tradursi in mera conservazione e richiede un profondo ripensamento anche del funzionamento del nostro sistema giudiziario, che non deve apparire punitivo per chi opera al suo interno, ma nemmeno essere oggetto di veti corporativi.

Noi siamo interessati a un nuovo modo di fare politica, dove sia la competizione tra leader e progetti e non la consociazione tra oligarchi a informare di sé il sistema politico. Per questo non guardiamo alla seconda parte della Costituzione come a una totem intoccabile e siamo favorevoli a cambiamenti istituzionali che portino a compimento la parziale trasformazione in senso maggioritario del nostro Paese. E riconosciamo, di conseguenza, il grande contributo che la discesa in campo di Silvio Berlusconi diede a suo tempo alla bipolarizzazione del sistema, anche se non possiamo non sentirci delusi dalle promesse mancate di quella che nel 1994 appariva come una vera e propria rivoluzione liberale e modernizzatrice di cui purtroppo non si è vista fino ad oggi alcuna traccia duratura. Al tempo stesso, riteniamo che sia importante interrogarsi su quale possa essere un efficace equilibrio tra poteri, e non pensiamo che richiamare la necessità di un Parlamento efficace e ben funzionante (in cui si fronteggiano a viso aperto e senza confusione di ruoli una maggioranza che governa e una opposizione che si prepara a farlo in futuro) sia in contraddizione con l’esigenza di governi forti e capaci; a ognuno va garantito il suo ruolo, nel rispetto reciproco.

Galli della Loggia conclude rassegnato che quella di Berlusconi sarebbe l’unica novità politica, benché “fangosa”, toccata in sorte all’Italia. Non so se sia vero, ma quello che è certo è che non possiamo rimanere dove siamo ancora, dopo 16 anni dal ’94, nel pieno della transizione. Noi vogliamo guardare avanti, con tutti quelli che ci staranno. E, proprio perché crediamo nell’importanza cruciale delle regole, delle istituzioni, dei partiti, vorremmo che l’esistenza di una destra di stampo europeo, non populista né plebiscitaria, ma anche di una sinistra realmente riformista, non debbano dipendere solo dagli uomini e dalla loro sorte. Né dai Berlusconi, né, sia chiaro, dai Fini.

I leader sono importanti, importantissimi nella politica contemporanea, ma non galleggiano nel vuoto; i leader possono esprimere le loro potenzialità, senza legare alla loro sorte quella di un paese, solo dove ci sono buone regole, buone strutture e una buona politica. Oggi non è così, e sto lavorando, con la mia storia e la mia visione del futuro, per colmare questa lacuna. Presunzione? Forse. Ma vale la comunque la pena di provarci.

‘Le due strade della filosofia’

ottobre 18, 2010

diValentina Barbieri

La filosofia, per una dissidenza intellettuale. Il pensatore in agguato torna in libreria questa volta con una rabbia di filosofo

Il volto dell’iraniana Sakineh, il corpo del cubano Guillermo Fariñas ridotto all’orlo della vita dallo sciopero della fame, le immagini degli arresti di piazza almeno una volta al mese in Russia; tutti simboli di una battaglia per la libertà che supera i confini nazionali. Ma qual è il valore della dissidenza oggi? E quale ruolo questa svolge? Questo il perno attorno a cui si muove nel suo ultimo libro André Glucksmann “Le due strade della filosofia” (Spirali 2010) in questi giorni in libreria. Intellettuale presente sulla scena culturale europea da quarant’anni, Glucksmann è autore di libri che hanno influenzato generazioni di giovani, dal libro di esordio nel 1967, “Il discorso sulla guerra” (critica della strategia americana in Vietnam), a cui seguirono “La cuoca e il mangia-uomini” (comunismo e gulag), “I padroni del pensiero” (critica del marxismo), “Dostoevskij a Manhattan”, “Occidente contro Occidente” (condanna del terrorismo nichilista e guerra in Iraq) e “Il discorso dell’odio” (quello per gli ebrei, le donne e l’America), fino ai più recenti “Rabbia di bambino” (autobiografia intellettuale) e “Sessantotto. Dialogo tra un padre e un figlio su una stagione mai finita”, scritto a quattro mani con il figlio Raphael. La sua è stata una battaglia che lo ha visto in prima fila nel dibattito intellettuale che ha accompagnato gli eventi degli ultimi decenni: dalla rivolta di Budapest alla guerra in Vietnam; dal maggio ’68 alla dissidenza sovietica, passando attraverso Solidarnosc, la Primavera di Praga o i movimenti pacifisti. Fino alla presa di posizione in difesa della giornalista russa Anna Politkovskaja.

In questo libro, definito dalla critica bilancio intellettuale di una vita filosofica, André Glucksmann riprende il valore della dissidenza, il tratto emblematico del ventesimo secolo. Il movimento per la libertà ha sconvolto la storia europea, passando attraverso le testimonianze dalla Russia di Solzenicyn e di Sakharov, attraverso il movimento libertario di Solidarnosc in Polonia, l’esperienza di intellettuali come Vaclav Havel, via via fino alla Rivoluzione Arancione in Ucraina e alla Rivoluzione delle Rose in Georgia. È un errore ritenere che il dibattito per la libertà e l’emancipazione si sia concluso con la caduta del muro di Berlino: ne è prova la cronaca quotidiana.

L’autore di “Una rabbia di bambino” racconta questa volta la sua rabbia di filosofo in “Le due strade della filosofia”, una testimonianza del suo itinerario intellettuale. Con i suoi saggi negli anni settanta Glucksmann ha segnato un’epoca, inaugurando un modo nuovo di vivere non solo da filosofo, ma con un impegno civile, sociale e intellettuale. L’autore torna con un un libro dedicato alla filosofia, e al ruolo che questa svolge. E lo fa prendendo due “maître à penser”, Socrate, il filosofo dell’interrogazione continua, e Martin Heidegger, colui che ha iniziato la sua indagine all’indomani della prima guerra mondiale, quando “l’Europa si è risvegliata e si è resa conto che i valori della belle époque erano suicidi” sulle questioni più contingenti, essenziali e urgenti che da sempre l’uomo si pone: il pensiero libero e la parola, la morte, l’amore e il sopravvivere.

Di fronte al nichilismo di Heidegger, Glucksmann sceglie Socrate, “sentinella del nulla”: sceglie lo sradicato Socrate di fronte a un radicato Heidegger. Dal 1945 in poi, si afferma in Europa l’esigenza di trasformare il mondo, una forza inarrestabile che ha coinvolto intellettuali, filosofi, pensatori, scrittori e poeti. La filosofia è ricerca, non già sapienza né saggezza, per questo “Saggi sono forse gli dei, ma filosofi mai”, dice Socrate; e il filosofo, tale per difetto e non per eccesso di saggezza, ha il compito di porsi in relazione con la propria contemporaneità. Oltre le ideologie, deve interrogarsi sui morti del ventesimo secolo — nei lager nazisti come nei gulag sovietici. Per questo, oggi più che mai, la filosofia è questione di dissidenza intellettuale irriducibile.

labrys

ottobre 7, 2010

La civiltà del labirinto

“Nel 1922, annus mirabilis della letteratura moderna, T. S. Eliot pubblicò una memorabile recensione dell’Ulisse di Joyce. Joyce, disse, ha creato non solo un romanzo unico al mondo, ha inventato un metodo, consegnando a noi scrittori e di riflesso ai nostri lettori, a tutti noi uomini moderni, la chiave per dominare il caos del presente. E come? Intrecciando il disordine della vita all’ordine del mito. Eliot capì, perché era proprio quel che faceva in poesia: anche lui per citazione letteraria, per allusione mitologica provava a dare forma e significato “all’immenso panorama di futilità e anarchia che è la storia contemporanea”. E insegnò a chi lo intese, e furono in molti nella sua epoca, come leggere non solo l’Ulisse, non solo La terra desolata, ma il Novecento, che proprio con Joyce, proprio con Eliot si manifesta nella sua potenza di secolo, che impone a chi in esso vive il problema del Tempo. Che cos’è il Tempo? È Chronos? È Tyche? È taglio o cucitura? È sequenza ordinata o interruzione? La domanda ossessiona il Novecento appena esso si apre alla consapevolezza di sé, come fa con Eliot, con Joyce. A questo servono gli scrittori, sono le antenne sensibili, vibratili che rispondono con più intensità alle angosce epocali.
In pagine altrettanto mirabili, qualche anno prima, Nietzsche aveva riflettuto sul significato dell’essere contemporaneo: ovvero tempestivo? O intempestivo? In altre parole, per abitare nel proprio tempo, bisogna andare a tempo, come si fa nella danza, o controtempo? Ecco l’intoppo. Eliot è americano, anche se si naturalizzerà cittadino britannico. Lo dico perché più di altre la civiltà americana sembra dominata dal problema del Tempo. E del Mito – come il successo del colossal Troy dimostra. E non sorprende che sia così, visto che essa nasce nella piena consapevolezza del passato, da cui s’è staccata nella presunzione di creare alla fine del diciassettesimo secolo dell’era comune, o cristiana, un mondo nuovo – moderno. Chi partì a bordo del Mayflower e nel dicembre del 1620 sbarcò a Cape Cod non andava per colonizzare, andava a fondare la Nuova Gerusalemme: quella, almeno, l’ambizione. I pellegrini avrebbero partorito un organismo sociale già sapiente, privo d’infanzia; il frutto nasceva maturo per l’esperienza che i suoi progenitori già avevano del Vecchio Mondo. Il quale però rimaneva sullo sfondo, e forniva immagini e simboli alla loro moderna odissea. Ma prima ancora di Ulisse, che Joyce celebrava nel suo romanzo, l’uomo moderno che abita la terra desolata di Eliot convive con altri fantasmi, più arcaici. Non solo con l’astuto greco, ma con Minosse, sostiene Theodore Ziolkowski, professore emerito di Letterature Comparate a Princeton. È Minosse, e con lui la sua isola, Creta, ad ossessionare la mente e la letteratura moderna. Non a caso lo studioso intitola il suo libro, dedicato a tracciare la mappa della persistenza di immagini antiche, addirittura arcaiche, nella vita moderna, Minos and the Moderns. Basta pensare all’idealizzazione del Minotauro da parte di Picasso, di Dürrenmatt, di Masson, di Breton; alla presenza inquietante del Labirinto nel pensiero di Freud, di Nietzsche, di Marx. O alla figura di Europa a cavalcioni del toro in mezzo al mare in tanta pittura non solo barocca. Per non parlare della sfrontata Pasifae, col suo erotismo alla Bataille. O del romantico abbandono di Arianna, che Strauss metterà in musica, su libretto di Hofmannsthal. O del torbido amore della sorella di Arianna, Fedra, che dopo Euripide e Seneca, ispirerà Racine. E Yourcenar. Creta risorge nella sua potenza di simbolo nel Novecento grazie a un singolare signorotto inglese, Sir Arthur Evans, che agli scavi si dedica con la tenacia di chi vuole scoprire le pudenda della civiltà vittoriana in cui è cresciuto, che in ogni modo ha voluto rimuovere la potenza della sessualità, che ha celebrato solo e soltanto nel suo aspetto procreativo; mentre a Creta la donna è madre sì, ma copula con un toro e genera un mostro, il quale a sua volta rappresenta la sfida, la minaccia, che il moderno ateniese Teseo deve vincere, instaurando il paradigma della modernità uguale vittoria sull’arcaico. Per trent’ anni – racconta Cathy Gere nel suo affascinante Knossos & the Prophets of Modernism – Evans scavò nel palazzo di Cnosso riportando alla luce una civiltà che accese la fantasia di scrittori e artisti, da Joyce a De Chirico a Robert Graves a Hilda Doolittle. Non tutte le ipotesi di Evans corrispondevano alla realtà dei fatti; in effetti, l’intraprendente studioso – che per comodità si comprò il sito archeologico – ci metteva del suo. E scavò non solo nei sassi di Creta, ma nella propria interiore coscienza, nel proprio personale, o addirittura collettivo inconscio. Fatto sta che anche lui (come un altro signore svizzero di Basilea, Johann Jakob Bachofen, nato cinquant’anni prima di lui, ma sempre nell’ Ottocento) lasciò intravvedere un altro mondo – materno; e prese a favoleggiare di arcaici matriarcati, di una libido materna attiva nelle mura di Creta, di una civiltà della madre promiscua, pacifica. Insomma, a Creta si scopriva non solo un luogo fisico, ma un tempo anteriore alla Storia. E se la Storia ha sempre un che di paterno, virile – non a caso la storia è un incubo per Stephen Dedalus, che già nel nome stringe la sua moderna nevrosi al mito cretese – il “prima” rivelava un mondo pacifista, materno. Evans parlò di un’origine africana della civiltà occidentale, si entusiasmò per il matriarcato, per l’androginia, il pacifismo, descrisse un mondo fiabesco, un paradiso di divinità femminili, privo di soldati, ma ricco di preti travestiti, di femmine atletiche, di giovani uomini effeminati, una specie di infanzia dell’ Europa. Con giovani uomini e donne cretesi che erano già un’anticipazione dei figli dei fiori degli anni sessanta del ventesimo secolo. Un idillio europeo – un inizio di sogno per un’Europa che sarà tra poco travolta da conflitti mondiali asprissimi, traumatici.”

(da Nadia Fusini, La civiltà del labirinto, “La Repubblica”, 20/09/’10)

MOBY

agosto 31, 2010

Si…come tanti cavatappi, il suo fianco è pieno di ramponi, marinaio, il suo spruzzo si eleva alto come un enorme fascio di grano e dibatte la coda come una vela sbrindellata dalla tempesta. Diavoli dannati, voi l’avete vista: è Moby Dick!


In my dreams I’m dying all the time
When I wake its kaleidoscopic mind
I never meant to hurt you
I never meant to lie
So this is goodbye
This is goodbye

Tell the truth you never wanted me

Tell me…

In my dreams I’m jealous all the time
Then I wake I’m going out of my mind
Going out of my mind

Il nulla, la scienza e l’arte

Maggio 27, 2010

di Sergio Givone

Pensare il nulla è precisamente ciò che, secondo la tradizione metafisica, non va fatto. Non va fatto perché non è possibile farlo. Pensare il nulla è cadere in contraddizione, è pensare qualche cosa, quindi attribuire l’essere a qualche cosa che non è. Nella misura in cui io dico che il nulla non è o che il non essere non è, già entro in contraddizione perché attribuisco qualche cosa, sia pure il non essere, a qualche cosa che assolutamente non è, non essere stesso. Ed ora l’idea profonda, l’idea che sta nel cuore del pensiero di Parmenide, il vero padre della metafisica: tu non penserai il nulla. Questo interdetto, questa proibizione di pensare il nulla, la ritroviamo, via via, in tutta la storia della filosofia. La ritroviamo in Platone, il quale compie – come lui stesso dice nel Sofista – un parricidio, perché cerca di pensare il nulla, introduce il nulla nel discorso filosofico. Ma il parricidio, come Platone stesso dimostra, si risolve in un grande elogio, in un trionfo del padre, in un grande elogio di Parmenide, perché in realtà Platone dimostra l’impossibilità di pensare il nulla in quanto nulla. Il nulla può esser pensato soltanto come finzione, solo per analogia, serve per spiegare ciò che altrimenti non potremmo spiegare, cioè la molteplicità, quindi, in definitiva, il divenire. Ma, assolta questa funzione – una specie di finzione – assolta questa funzione, del nulla non ne è più nulla. Ma del nulla non ne è più nulla nella scienza, che davvero è l’erede di questa tradizione metafisica. E la scienza pensa ciò che è, con i suoi strumenti agisce su ciò che è, sperimenta ciò che è, ma lasciando ciò che non è fuori del campo della sperimentazione possibile. Di nuovo si dice: i buchi neri, oppure i numeri razionali, sono finzioni platoniche, sono di nuovo elementi introdotti nel discorso, che però non hanno nessun peso ontologico, nessuna realtà ontologica. Là dove invece esiste una vera e propria ontologia del nulla, ma esiste come trasgressione dell’interdetto parmenideo. Questa ontologia del nulla la possiamo ricostruire. Ci sono tracce nella storia della filosofia. E siccome il nulla è il grande rimosso della storia della filosofia occidentale, è chiaro che l’ontologia del nulla non può essere cercata che negli episodi marginali di questa storia della filosofia. Ha lasciato soltanto delle tracce, non è stata elaborata una vera e propria ontologia del nulla o meontologia. Ma le tracce sono rivelative, sono importanti e ci mettono, ci fanno incontrare autori – che magari non interpreteremmo in questa chiave, ma che in questa chiave vanno interpretati – come Plotino, il quale sostiene che il nulla è al di là dell’essere, anzi ne è il fondamento, il non essere è il fondamento dell’essere e dunque converte l’essere nella libertà. Troveremo questa stessa idea nei mistici, che arrivano a identificare Dio con il nulla e troveremo quest’idea nei romantici, i quali cercheranno di elaborare una vera e propria ontologia della libertà, cioè una concezione dell’essere come libertà piuttosto che come necessità, su base estetica. Perché su base estetica? Perché appunto l’arte, è quella che ci rende sperimentabile il paradosso dei paradossi, il paradosso per cui l’essere, la verità dell’essere è, ma è sempre altra da sé. Le opere d’arte di che cosa parlano, se non della verità dell’essere? Ma questa verità dell’essere che cosa é, se non sempre altra da sé. E’ addirittura contraddittoria rispetto a se stessa.

LABRYS

Maggio 23, 2010

IL LABIRINTO MENTALE
(Silvia Coletti) – “Per trovare la via di uscita da un labirinto non vi è che un mezzo. A ogni nodo nuovo, ossia mai visitato prima, il percorso di arrivo sarà contraddistinto da tre segni. Se, a causa di segni precedenti su qualcuno dei cammini del nodo, si vedrà che quel nodo è già stato visitato, si porrà un solo segno sul percorso di arrivo. Se tutti i varchi sono già stati segnati allora bisognerà rifare la strada, tornando indietro. Ma se uno o due varchi del nodo sono anche senza segni, se ne sceglierà uno qualsiasi, apponendovi due segni. Incamminandosi per un varco che porta un solo segno, ve ne apporteremo altri due, in modo che ora quel varco ne porti tre. Tutte le parti del labirinto dovrebbero essere state percorse, arrivando a un nodo, non si prenderà mai il varco con tre segni, a meno che nessuno degli altri varchi sia ormai privo di segni”. (U.Eco, Il nome della rosa)
Questa descrizione  di un labirinto tipicamente medievale recitata da Guglielmo ricorda in modo analogico il nostro labirinto neurale come una figura architettonica, come una costruzione significativa. All’interno del dibattito sulla conoscenza il problema del dualismo mente-corpo è uno dei temi più discussi e a tutt’oggi ancora dibattuti: Che cos’è la mente? Che cos’è realtà? Quale relazione c’è fra un mondo fatto di particelle fisiche, il linguaggio come struttura del mondo e il soggetto cosciente libero di scegliere all’interno di questi universi? Guardando con occhi contemporanei al labirinto medievale ci rendiamo conto che il sistema mentale non è più inteso come un sistema chiuso, ma fortemente aperto. Tale sistema prende il nome di rete intelligente: neurale e semantica. Le nostre unità significative restano sempre gli incroci e i nodi, e le nostre espressioni percettivo-intenzionali sono sempre i percorsi all’interno di sezioni che legano un nodo ad un corridoio e poi ad un altro nodo, la differenza sta nel considerare la rete come costituita ad un livello oggettivo sottostante da una struttura sintattico-fisiologica invariante e ad un livello o più livelli soggettivi superiori da una struttura semiotica realizzata secondo un  processo semantico che a partire da questa base è in grado di costruire mondi possibili o reali di volta in volta passibili di  verifica e di modifica. In termini più semplici possiamo dire che la struttura logica comune della rete intelligente viene rappresentata come una trama di relazioni e di implicazioni: non abbiamo più solo una costruzione spaziale-geometrica, ma temporale in cui il verbo essere si coniuga e nel coniugarsi rende la struttura logicamente significante. Sarà allora necessario lavorare su un modello di rete geometrica costituito da linee forza che faranno da guida alla logica matematica su cui individuare e costruire modelli analogici isomorfi aperti a tutte le possibili combinazioni e interpretazioni su cui basare di seguito le inferenze di ????. L’io durante il suo metaforico viaggio mentale all’interno del labirinto neurale dovrà essere in grado di apprendere, conoscere, scoprire, ridefinire e fissare il nuovo su una base geometrica. Due domini che apparentemente sembrano separati in realtà sono in relazione cognitiva ed emozionale tra loro attraverso l’uso di un linguaggio appropriato all’uno come una lente per vedere l’altro.

PPP

Maggio 3, 2010

«Studenti figli di papà, io sto con i poliziotti…»

E’ Triste. La polemica contro il Pci andava fatta nella prima metà del decennio passato. Siete in ritardo, figli. E non ha nessuna importanza se allora non eravate ancora nati.

Adesso i giornalisti di tutto il mondo (compresi quelli delle televisioni) vi leccano (come credo ancora si dica nel linguaggio delle Università) il culo. lo no, amici. Avete facce di figli di papà. Buona razza non mente. Avete lo stesso occhio cattivo. Siete paurosi, incerti, disperati (benissimo!) ma sapete anche come essere prepotenti, ricattatori e sicuri: prerogative piccolo-borghesi, amici. Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte coi poliziotti io simpatizzavo coi poliziotti! Perché i poliziotti sono figli di poveri.

Vengono da periferie, contadine o urbane che siano. Quanto a me, conosco assai bene, il loro modo di esser stati bambini e ragazzi le preziose mille lire, il padre rimasto ragazzo anche lui, a causa della miseria, che non dà autorità. La madre incallita come un facchino, o tenera, per qualche malattia, come un uccellino; i tanti fratelli; la casupola tra gli orti con la salvia rossa (in terreni altrui, lottizzati); i bassi sulle cloache; o gli appartamenti nei grandi caseggiati popolari, ecc. ecc. E poi, guardateli come si vestono: come pagliacci, con quella stoffa ruvida che puzza di rancio fureria e popolo. Peggio di tutto, naturalmente è lo stato psicologico cui sono ridotti (per una quarantina di mille lire al mese): senza più sorriso, senza più amicizia col mondo, separati, esclusi (in una esclusione che non ha uguali); umiliati dalla perdita della qualità di uomini per quella di poliziotti (l’essere odiati fa odiare).

Hanno vent’anni, la vostra età, cari e care. Siamo ovviamente d’accordo contro l’istituzione della polizia. Ma prendetevela contro la Magistratura, e vedrete! I ragazzi poliziotti che voi per sacro teppismo (di eletta tradizione risorgimentale) di figli di papà avete bastonato, appartengono all’altra classe sociale. A Valle Giulia, si é così avuto un frammento di lotta di classe: e voi, amici (benché dalla parte della ragione) eravate, i ricchi, mentre i poliziotti (che erano dalla parte del torto) erano i poveri. Bella vittoria, dunque, la vostra! in questi casi, ai poliziotti si danno i fiori, amici/ “Popolo” e “Corriere della sera”, “Newsweek” e “Monde” vi leccano il culo. Siete i loro figli la loro speranza, il loro futuro: se vi rimproverano non si preparano certo a una lotta di classe contro di voi! Se mai, alla vecchia lotta intestina. Per chi, intellettuale o operaio, è fuori da questa vostra lotta, è molto divertente l’idea che un giovane borghese riempia di botte un vecchio borghese, e che un vecchio borghese mandi in galera un giovane borghese. Blandamente i tempi di Hitler ritornano: la borghesia ama punirsi con le sue proprie mani. Chiedo perdono a quei mille o duemila giovani miei fratelli che operano a Trento o a Torino, a Pavia o a Pisa, a Firenze e anche un po’ a Roma, ma devo dire: il Movimento Studentesco non frequenta i vangeli la cui lettura i suoi adulatori di mezza età gli attribuiscono, per sentirsi giovani e crearsi verginità ricattatrici: una sola cosa gli studenti realmente conoscono: il moralismo del padre magistrato o professionista, la violenza conformista del fratello maggiore (naturalmente avviato per la strada del padre) l’odio per la cultura che ha la loro madre, di origini contadine, anche se già lontane. Questo, cari figli, sapete. E lo applicate attraverso inderogabili sentimenti: la coscienza dei vostri diritti (si sa, la democrazia prende in considerazione solo voi) e l’aspirazione al potere. Sì, i vostri slogan vertono sempre la presa di potere. Leggo nelle vostre barbe ambizioni impotenti nei vostri pallori snobismi disperati, nei vostri occhi sfuggenti dissociazioni sessuali, nella troppa salute prepotenza, nella poca salute disprezzo (solo per quei pochi di voi che vengono dalla borghesia infima, o da qualche famiglia operaia questi difetti hanno qualche nobiltà: conosci te stesso e la scuola di Barbiana!) Occupate le università ma dite che la stessa idea venga a dei giovani operai. E allora: “Corriere della Sera” e “Popolo”, “Newsweek” e “Monde” avranno tanta sollecitudine nel cercar di comprendere i loro problemi. La polizia si limiterà a prendere un po’ di botte dentro una fabbrica occupata? E’ un’osservazione banale; e ricattatoria. Ma soprattutto vana: perché voi siete borghesi e quindi anticomunisti. Gli operai, loro, sono rimasti al 1950 e più indietro. Un’idea antica come quella della Resistenza (che andava contestata venti anni fa, e peggio per voi se non eravate ancora nati) alligna ancora nei petti popolari in periferia. Sarà che gli operai non parlano né il francese né l’inglese, e solo qualcuno, poveretto, la sera, in cellula, si è dato da fare per imparare un po’ di russo. Smettetela di pensare ai vostri diritti, smettetela di chiedere il potere. Un borghese redento deve rinunciare a tutti i suoi diritti e bandire dalla sua anima, una volta per sempre, l’idea del potere. Tutto ciò è liberalismo: lasciatelo a Bob Kennedy. I Maestri si fanno occupando le fabbriche non le università: i vostri adulatori ( anche comunisti) non vi dicono la banale verità che siete una nuova specie idealista di qualunquisti come i vostri padri, come i vostri padri, ancora, figli. Ecco, gli Americani, vostri adorabili coetanei, coi loro sciocchi fiori, si stanno inventando, loro, un linguaggio rivoluzionario “nuovo”! Se lo inventano giorno per giorno! Ma voi non potete farlo perché in Europa ce n’e già uno: potreste ignorarlo? Sì, voi volete ignorarlo (con grande soddisfazione del “Times” e del “Tempo”). Lo ignorate andando, col moralismo delle profonde province, “più a sinistra”. strano, abbandonando il linguaggio rivoluzionario del povero, vecchio, togliattiano, ufficiale Partito Comunista, ne avete adottato una variante eretica ma sulla base del più basso gergo dei sociologi senza ideologia (o dei babbi burocrati). Così parlando, chiedete tutto a parole, mentre, coi fatti, chiedete solo ciò a cui avete diritto (da bravi figli borghesi): una serie di improrogabili riforme, l’applicazione di nuovi metodi pedagogici e il rinnovamento di un organismo statale. Bravi! Santi sentimenti! Che la buona stella della borghesia vi assista! Innebriati dalla vittoria contro i giovanotti della polizia costretti dalla povertà a essere servi, (e ubriacati dall’interesse dell’opinione pubblica borghese con cui voi vi comportate come donne non innamorate, che ignorano e maltrattano lo spasimante ricco) mettete da parte l’unico strumento davvero pericoloso per combattere contro i vostri padri: ossia il comunismo. Spero che l’abbiate capito che fare del Puritanesimo è un modo per impedirsi un’azione rivoluzionaria vera. Ma andate, piuttosto, figli, ad assalire le Federazioni!Andate a invadere cellule! Andate ad occupare gli uffici del Comitato Centrale! Andate, andate ad accamparvi in Via delle Botteghe Oscure!

Se volete il Potere, impadronitevi, almeno, del potere di un partito che è tuttavia all’opposizione (anche se malconcio, per l’autorità di signori in modesto doppiopetto, bocciofili, amanti della litote, borghesi coetanei dei vostri stupidi padri) ed ha come obiettivo teorico la distruzione del Potere. Che esso si decida a distruggere, intanto, ciò che di borghese ha in sé, dubito molto, anche se col vostro apporto, se, come dicevo, buona razza non mente…Ad ogni modo: il Pci ai giovani!Ma, ahi, cosa vi sto suggerendo? cosa vi sto consigliando? A cosa vi sto sospingendo? Mi pento, mi pento Ho preso la strada che porta al minor male, che Dio mi maledica. Non ascoltatemiAhi, ahi, ahi, ricattato ricattatore, davo fiato alle trombe del buon senso! MI son fermnato appena in ternpo, salvando insieme, il dualismo fanatico e l’ambiguità…Ma son giunto sull’orlo della vergogna…(oh Dio! che debba prendere in considerazione l’eventualità di fare al vostro fianco la Guerra Civile accantonando la mia vecchia idea di Rivoluzione?)

PIER PAOLO PASOLINI

PRIMO MAGGIO

Maggio 1, 2010