Amici futuristi della Libertà, il vostro Fini sono io, non altri
Consigli accademici per fermare il calo dei consensi e ritrovare la leadership
di Marina Valensise
Onorevoli colleghi,
Potevo fare di quest’Aula sorda e grigia un bivacco di manipoli; sprangare il Parlamento e costituire un governo esclusivamente di uomini del Pdl. Ma non l’ho fatto. Se oggi sono qui davanti a voi, è perché intendo dar prova di rinnovata fiducia. Di questo il paese ha bisogno ritrovare slancio e prendere la strada di un futuro migliore. Mi rivolgo dunque a voi Futuristi della libertà, al gruppo che il presidente della Camera ha raccolto intorno a sé con un intento indecifrabile, per dirvi: se davvero volete essere una destra illuminata, servire la nazione, e non servirvi della nazione, ebbene il vostro Fini è Berlusconi, non quell’aspirante leader che nutre nell’ombra l’ingratitudine e il rancore. Venite con noi, serrate le file, superate il dissidio. Siete i custodi del patrimonio di una destra moderata e liberale? Il vostro programma è il nostro. Quattro punti lo dimostrano e la giustizia è il primo. Volete difendere la legalità? Non avete altra scelta che approvare la riforma che introduce la separazione delle carriere, tra chi esercita il ruolo dell’accusa e chi si trova in quello di arbitro. Noi intendiamo sottrarre al Csm la giustizia domestica, privarlo delle competenze disciplinari, creando invece un organismo autonomo, formato da membri eletti, scelti dal capo dello stato, dal Parlamento, dalla società civile, che vigili autorevolmente sull’autogoverno della magistratura.Avete a cuore gli interessi del Mezzogiorno? Non fatevi irretire dai nemici del federalismo, votate con noi l’attuazione della riforma nel rispetto della sussidiarietà e dell’unità nazionale. Volete salvaguardare lo stato? Promuoviamo insieme il rilancio del sud, con un piano di grandi infrastrutture, col controllo sui centri di spesa, con la defiscalizzazione, i porti franchi, e un’agenzia di tecnocrati ad hoc che insegnino agli amministratori del sud come fare uso virtuoso dei fondi europei. Volete rilanciare la crescita? Non possiamo ridurre la pressione fiscale, ma dobbiamo sostenere la lotta contro l’evasione, snidare gli evasori, rendere la vita impossibile a chi frodando il fisco lede gli interessi di tutti. Davvero avete a cuore un rinnovato senso dello stato, il principio della legalità? Sostenete il governo che più di ogni altro, nella storia repubblicana, ha operato contro la criminalità organizzata e i suoi loschi traffici. Non avete alternative. Gli italiani lo sanno.
FOGLIO QUOTIDIANO
La successione a Berlusconi
La lotta nel Pdl per l’eredità
Dico la verità: mi sarei aspettato che dopo le critiche mosse dal Presidente Berlusconi al suo partito, alle responsabilità che a suo giudizio questo avrebbe nella perdita di popolarità del governo, i tre coordinatori dello stesso Pdl — Bondi, La Russa e Verdini—avrebbero in merito detto qualcosa, mosso qualche obiezione, insomma si sarebbero difesi e avrebbero difeso il loro operato. Come del resto avevano fatto più e più volte in precedenza, rispondendo puntualmente e puntigliosamente a tutte le critiche apparse sui giornali o altrove (ricordo, per esempio, una lunghissima lettera indirizzata a chi scrive pubblicata sul Corriere il 4 marzo scorso). Invece niente, neppure una parola. Evidentemente ci sono interlocutori ai quali è permesso ribattere e altri, invece, con i quali è consigliabile osservare un prudente silenzio.
Ma ancora più stupefacente, in tutti questi mesi, è stato il silenzio da parte di qualcosa che pure aveva nome partito — sempre il Pdl, appunto — di fronte al sistematico prevalere nelle scelte del governo delle esigenze degli alleati leghisti. Silenzio di tomba perfino dopo l’ultimo Consiglio dei ministri, dove — per dirla nella maniera più spiccia — Berlusconi ha tranquillamente venduto alcuni ministri del suo partito (Gelmini, Prestigiacomo, Bondi, Galan e Meloni) al diktat della coppia Tremonti-Bossi.
Quando succedono cose del genere, o quando si ascoltano critiche come quelle di cui sopra mosse da Berlusconi, nei partiti, in quelli veri, non c’è il silenzio dei massimi responsabili (e di tutti gli altri). Scoppia invece la discussione, il confronto, magari il litigio. Il punto dunque è sempre e solo uno: e cioè che il Pdl (così come prima Forza Italia), di plastica o no, comunque non è un partito vero. Nel caso migliore è una coorte di seguaci ciechi e muti scelti inappellabilmente dal capo; nel caso peggiore una corte d’intrattenitori, nani, affaristi, ballerine, di addetti alle più varie intendenze. Certo, il Pdl è anche un partito votato da tanti degnissimi italiani. Ma sappiamo tutti che i voti in realtà non vanno al Pdl, vanno alla persona di Berlusconi.
Ma se le cose stanno così, questo significa che l’operazione storica di sdoganamento della destra compiuta da Berlusconi nei confronti del sistema politico italiano — sì, un’operazione storica: riconoscerlo è un obbligo di obiettività che anche la sinistra sarebbe ora sentisse — questa operazione è tuttavia, per sua stessa colpa, rimasta a metà. Berlusconi, infatti, ha sì sdoganato la destra elettoralmente e sul piano del governo, ma non è riuscito a sdoganarla socialmente e culturalmente. Non c’è riuscito nell’unico modo in cui da sempre ciò avviene, e cioè creando e radicando sul territorio un vero partito, organizzato e strutturato come tale, portatore di esigenze, centro di relazioni con ambienti e personalità diverse, elaboratore di proposte, collettore di idee. E soprattutto, almeno in certa misura, centro effettivo di decisioni vincolanti per tutti, anche per i suoi capi.
Non c’è riuscito perché non ha voluto, naturalmente. E non ha voluto per tre ragioni: per la paura che ciò avrebbe comunque diminuito il suo potere; per un riflesso padronale creatosi in decenni di comando aziendale, in base al quale «se io ci metto i soldi (e per giunta prendo i voti), io comando»; e infine per il difetto, che in lui è abissale, di vera cultura politica.
Lo sdoganamento della destra italiana rischia dunque, così, di finire con Berlusconi. Se le cose continuano nel modo attuale, infatti, quando il presidente del Consiglio si ritirerà dalla scena politica, il Pdl rischia verosimilmente di sfasciarsi nel giro di tre mesi, lasciando i suoi esponenti a galleggiare come turaccioli su quella marea di voti che solo Berlusconi riusciva a suo tempo a prendere, ma che ora saranno allo sbando, nella più totale libera uscita. Quale elettore di destra, infatti, si potrà mai sentire motivato a votare per Verdini, la Brambilla o Scajola? Per persone che come proprio titolo di merito saranno in grado di esibire, a quel punto, solo quello dell’obbedienza perinde ac cadaver?
Ma c’è Fini, si dice: perché non potrebbe essere Fini a portare a termine l’opera iniziata da Berlusconi? Fare profezie è vano, ma mi sembra assai difficile che lo sdoganamento ideologico-politico della destra italiana, la creazione finalmente di un suo vero partito, possano avvenire per opera di chi è stato l’ultimo segretario del partito neofascista, di chi per anni e anni si è nutrito di quegli ideali, lo ha diretto con quei metodi, con quello stile. Neppure agli ex comunisti è riuscita in modo indolore e in tempi brevi un’operazione di sdoganamento e di rifondazione che in fondo presentava da tanti punti di vista ben minori problemi; figuriamoci se può riuscire a un personaggio come Fini, che ancora non moltissimi anni fa sosteneva che Mussolini era «il più grande statista del Novecento». A me pare che in realtà, Fini—come D’Alema, come Casini, come Rutelli, come Bersani, come Fioroni, come tutta una classe politica— appaia ancora e sempre immerso per intero nel vecchio scenario della morente prima Repubblica, nella sua paralizzata e paralizzante inconcludenza. Da chi come Fini ha come primo obbligo quello di mostrarsi sempre e comunque fedele osservante delle polverose regole della democrazia italiana, dei suoi tic e dei suoi tabù, è difficile attendersi rotture e novità di qualsiasi tipo.
Sembra proprio, dunque, che dobbiamo rassegnarci: il berlusconismo è l’unica benché fangosa novità politica toccata in sorte all’Italia in questi anni. Per il dopo siamo ancora in attesa.
Ernesto Galli Della Loggia
18 ottobre 2010
Verso la nuova politica, contro le oligarchie-Corsera.it
19 ottobre 2010
di Gianfranco Fini
L’editoriale di Ernesto Galli della Loggia affronta direttamente, senza ipocrisie e titubanze, la situazione in cui si trova il centrodestra italiano. Accanto alla riflessione molto critica nei confronti del Pdl, viene affrontata anche la questione della futura leadership della destra italiana ed essendo stato direttamente chiamato in causa non posso esimermi dal rispondere.
Galli della Loggia illustra con nettezza il problema che ormai da molto tempo viene denunciato da studiosi e osservatori che si riconoscono nell’area cosiddetta finiana, e che io stesso ho ripetutamente posto, ovvero che la leadership berlusconiana non ha consentito, e forse nemmeno voluto, la creazione di un vero partito “organizzato e strutturato come tale, portatore di esigenze, centro di relazioni con ambienti e personalità diverse, elaboratore di proposte, collettore di idee”, nonché, “centro effettivo di decisioni vincolanti per tutti, anche per i suoi capi”. Forse proprio la mia lunga esperienza alla guida di un partito vero, dove l’esercizio della leadership e la gerarchia hanno sempre fatto con i conti con il pluralismo e la competizione interni, mi ha reso più refrattario ad accettare il partito non-partito che è diventato il Popolo delle Libertà.
Ma questa esperienza mi viene rinfacciata da Galli della Loggia, che sbrigativamente mi liquida come “l’ultimo segretario del partito neo-fascista”. Io non nego ciò che sono stato, non nego il mio passato. Di quel passato conservo la ferma convinzione che la politica sia innanzitutto uno strumento al servizio della comunità nazionale e dei suoi cittadini e in una prospettiva più ampia, uno strumento che può aiutare a costruire un futuro migliore, più sicuro e più prospero, per tutti.
Tuttavia, rivendico il diritto di cambiare opinione, assumendone tutta la responsabilità. Accade di cambiare opinione, quando ci si pone con umiltà e senza pregiudizi di fronte alle cose della vita, alla storia, ai mutamenti che investono la società nella quale si vive. E in questo mio percorso, politico ma anche esistenziale, ho guidato il mio partito verso il cambiamento. Credo in buona fede di avere raggiunto dei risultati: non sono stato solo l’ultimo segretario del Movimento sociale, sono stato anche il primo di Alleanza Nazionale, l’artefice di Fiuggi e della faticosa strada che ne è seguita. Quando mi sono recato in Israele è stato anche attraverso la piena e profonda comprensione della tragedia della shoah e delle responsabilità del fascismo che ho cominciato ad osservare con nuovi occhi il passato, il presente e il futuro. E così ha fatto chi da destra mi ha seguito in questo lungo e importante percorso. In questa avventura personale e politica ho incontrato anche nuovi compagni di strada, che mi sono oggi vicini e, pur con altre storie politiche alle spalle, oggi con me condividono la speranza di una Italia diversa.
Galli della Loggia mi imputa anche di essere “ancora e sempre immerso per intero nel vecchio scenario della morente prima Repubblica”. Non mi sento immerso in quello scenario; sento di essere parte di una piccola storia, la storia del nostro Paese, la storia di un Paese che è transitato da una situazione politica e culturale condizionata dal passato autoritario, dalla Guerra fredda e dai grandi “partiti Chiesa” a una fase dove la modernizzazione della politica e della società e le resistenze a quella modernizzazione hanno convissuto per più di un quindicennio e continuano a convivere. Mi sento figlio del mio tempo, di questo tempo convulso, mi faccio carico della mia storia, ma guardo avanti.
Considero quello della prima Repubblica un ciclo che si è chiuso e la sfida è proprio quella di essere capaci di operare nel proprio tempo e di farsi carico delle trasformazioni epocali che dobbiamo governare e trasformare in opportunità, per non esserne travolti. L’Italia se lo merita e la classe politica non può annegare nel presentismo o peggio continuare a rinfacciarsi il passato.
La scommessa che abbiamo fatto con Futuro e Libertà è difficile da vincere, ma non impossibile. Dobbiamo muoverci tra resistenze passatiste, rappresentate da interessi corporativi ancora potentissimi e tendenze culturali alla conservazione di un vecchio modo – consensuale e consociativo – di fare politica, e una modernizzazione non compiuta e “viziata” da una anti-politica che ha emarginato ogni serio discorso sulle regole, sulla loro innovazione e sugli strumenti per fare politica, a partire da partiti, nuovi ma solidi e radicati.
Forse, muovendoci in questo angusto spazio, abbiamo dato l’impressione di scivolare nelle “polverose regole della democrazia italiana, dei suoi tic, dei suoi tabù”. Forse abbiamo commesso errori di comunicazione, perché non sono certo quelle regole, quei tic e quei tabù che vogliamo preservare.
Se oggi insistiamo sul tema della legalità, è perché in Italia il rispetto delle regole è sempre più considerato una opzione, non un dovere, nella società così come in parte della classe politica, e la incidenza del malaffare e della corruzione è ormai divenuto il principale problema per lo sviluppo e la ripresa della nostra società e della nostra economia. Tuttavia, siamo ben consapevoli che questo non deve e non può tradursi in mera conservazione e richiede un profondo ripensamento anche del funzionamento del nostro sistema giudiziario, che non deve apparire punitivo per chi opera al suo interno, ma nemmeno essere oggetto di veti corporativi.
Noi siamo interessati a un nuovo modo di fare politica, dove sia la competizione tra leader e progetti e non la consociazione tra oligarchi a informare di sé il sistema politico. Per questo non guardiamo alla seconda parte della Costituzione come a una totem intoccabile e siamo favorevoli a cambiamenti istituzionali che portino a compimento la parziale trasformazione in senso maggioritario del nostro Paese. E riconosciamo, di conseguenza, il grande contributo che la discesa in campo di Silvio Berlusconi diede a suo tempo alla bipolarizzazione del sistema, anche se non possiamo non sentirci delusi dalle promesse mancate di quella che nel 1994 appariva come una vera e propria rivoluzione liberale e modernizzatrice di cui purtroppo non si è vista fino ad oggi alcuna traccia duratura. Al tempo stesso, riteniamo che sia importante interrogarsi su quale possa essere un efficace equilibrio tra poteri, e non pensiamo che richiamare la necessità di un Parlamento efficace e ben funzionante (in cui si fronteggiano a viso aperto e senza confusione di ruoli una maggioranza che governa e una opposizione che si prepara a farlo in futuro) sia in contraddizione con l’esigenza di governi forti e capaci; a ognuno va garantito il suo ruolo, nel rispetto reciproco.
Galli della Loggia conclude rassegnato che quella di Berlusconi sarebbe l’unica novità politica, benché “fangosa”, toccata in sorte all’Italia. Non so se sia vero, ma quello che è certo è che non possiamo rimanere dove siamo ancora, dopo 16 anni dal ’94, nel pieno della transizione. Noi vogliamo guardare avanti, con tutti quelli che ci staranno. E, proprio perché crediamo nell’importanza cruciale delle regole, delle istituzioni, dei partiti, vorremmo che l’esistenza di una destra di stampo europeo, non populista né plebiscitaria, ma anche di una sinistra realmente riformista, non debbano dipendere solo dagli uomini e dalla loro sorte. Né dai Berlusconi, né, sia chiaro, dai Fini.
I leader sono importanti, importantissimi nella politica contemporanea, ma non galleggiano nel vuoto; i leader possono esprimere le loro potenzialità, senza legare alla loro sorte quella di un paese, solo dove ci sono buone regole, buone strutture e una buona politica. Oggi non è così, e sto lavorando, con la mia storia e la mia visione del futuro, per colmare questa lacuna. Presunzione? Forse. Ma vale la comunque la pena di provarci.